Mentre aspettavo il primo treno

Tradito dalle persone che amavo, avevo lasciato la mia famiglia andando a stare da solo. In forte depressione, ho provato varie volte a togliermi la vita. L’ultima, in una piccola stazione. Mentre aspettavo il primo treno per buttarmi sotto, una suora mi ha raggiunto sui binari e mi ha convinto a desistere.

Poi si è presa cura di me facendomi conoscere una comunità di recupero che mi ha accolto a braccia aperte; i primi tempi però ri utavo l’a- more che mi davano a causa dell’odio che portavo dentro di me. Anche se non volevo più saperne di Dio, uno di loro mi ha convinto a leggere la Bibbia.

Man mano la durezza del mio cuore si è sciolta e ho cominciato a credere. Sono passati alcuni anni e ho imparato a perdonare, ad amare il prossimo, a essere paziente… Ora ho riallacciato i rapporti anche con i miei familiari, ho un lavoro, una casa, mi sento sereno.

Nulla succede a caso… Grazie a Dio che mi ha fatto conoscere il suo immenso amore!

Carmelo – Italia

Fonte: Il Vangelo del giorno, Città Nuova, Febbraio 2016, p.152




Figlia adottiva

Essere stata adottata mi ha creato per anni un complesso di inferiorità e una certa ribellione. Quando i miei genitori adottivi sono morti a distanza di poco tempo, mi sono resa conto di quanto poco li avessi amati, non per l’eredità che mi avevano lasciato, ma perché ho capito con quanta delicatezza e tenerezza mi fossero stati vicini sempre.

Da quel momento la mia vita è cambiata: ho deciso di essere io madre di chi è so erente, di chi non ha casa… Quando qualcuno mi ringrazia io so di essere sempre in debito verso gli altri. Soltanto così posso rendere ai genitori quello che non sono riuscita a dare loro.

I. S. – Italia

Fonte: Il Vangelo del giorno, Città Nuova, Febbraio 2016, p.139




Il segno del cielo

In visita dal medico, per caso ho sentito una signora, incinta del quarto figlio, dire alla segretaria che non poteva tenerlo, date le sue condizioni economiche. «Dio vorrà tenerne conto», concludeva.

Non potendo rimanere indifferente a questa notizia, subito l’ho comunicata ai più intimi e insieme abbiamo deciso di fare una colletta fra noi. Poi sono andata dalla segretaria del medico per chiederle di consegnare quel denaro alla signora, senza dire chi l’aveva portata. Intanto affidavamo tutto a Dio.

Il tempo passava senza sapere l’esito; qualcuno però aveva notato (viviamo in un piccolo centro dove tutti si conoscono) che il pancione della signora cresceva. Finalmente è nato un bel bambino. A distanza di un anno ho ricevuto i ringraziamenti di quella signora, che ave- va capito l’origine del denaro ricevuto: «Il giorno prima di andare ad abortire avevo chiesto a Dio di farmi capire se stessi facendo la cosa giusta. A tarda sera, è venuta a trovarmi la segretaria del medico con la vostra busta. Per me è stato un segno del cielo».

R. – Calabria

Fonte: Il Vangelo del Giorno, Città Nuova editrice, Febbraio 2016, p. 45




Benvenuto al binario 2

 

ALLA STAZIONE DI SANTA MARIA NOVELLA DI FIRENZE UN HELP CENTER IN RISPOSTA ALLA MARGINALITÀ SOCIALE. QUANDO L’INTEGRAZIONE FRA PUBBLICO E PRIVATO FUNZIONA

«Il signor T. è un uomo italiano di 66 anni, con 20 anni di vita per strada, dimorante abituale della stazione di Santa Maria Novella a Firenze. Dopo la perdita prima della madre e poi della casa e del lavoro, trova la strada dell’alcool e del vagabondaggio. Segnato nel fisico e nella psiche, ha vari incidenti e pestaggi, rischiando la morte 3 volte in un anno. Lo abbiamo trovato a un certo punto, dopo averlo cercato, in un ospedale, nel reparto di rianimazione. Abbiamo preso contatto con i servizi sociali e dopo la degenza verrà inserito in una Rsa».

«La signora P., arrivata in Italia da sola, clandestina e senza un lavoro, viene accolta provvisoriamente presso una signora. Si presenta all’Help center per fare il corso di italiano e qui, sentendosi accolta e sicura di essere aiutata, ci confida di essere stata violentata da un gruppo di uomini. L’abbiamo accompagnata ai Servizi sanitari e messa in contatto con il Centro antiviolenza Artemisia che le ha dato un sostegno psicologico. Illusa poi da un uomo violento e tossicodipendente che l’ha sposata, consentendole così di ottenere il permesso di soggiorno, è tornata da noi e abbiamo continuato ad aiutarla». «La signora S., senza fissa dimora (comunitaria Ue) e conosciuta da molti anni dal nostro Help center, è stata spesso accompagnata verso i servizi sanitari volontari del territorio. Essendo ammalata e non potendo accedere ai servizi sanitari perché senza una residenza, le è stata concessa presso la nostra Casa di accoglienza Casa Serena. Tramite il progetto “Oltre la strada”, poi, abbiamo avuto un contributo per farle l’assicurazione sanitaria. La signora oggi è inserita in una struttura di accoglienza e gode di una vita più serena».

Una storia tira l’altra e ognuna dice da sé quello che succede al binario 2 della stazione Santa Maria Novella di Firenze, come mi raccontano alcuni operatori. Basta stare qualche ora nella sede dell’Help center e si entra in contatto con… tutti i colori dell’umanità. Quando arrivo, ci sono due sedicenni albanesi giunti da poco in Italia, poi si susseguono una signora rumena da 25 anni nel nostro Paese, una giovane congolese, un italiano separato e senza più contatti con la famiglia di origine. Situazioni le più varie, denominatore comune la persona, da accogliere, ascoltare, aiutare.

Romano Tiraboschi, direttore del Centro dallo scorso settembre, conosce tutti quelli che passano, a volte anche solo per un saluto e per sentirsi incoraggiati a non mollare.

«Non è che riusciamo a soddisfare tutti i bisogni concreti – mi dice –, non di rado molto più grandi di noi, ma almeno diamo alle persone fiducia e speranza, le aiutiamo a risollevarsi e ci ringraziano anche solo per essere state ascoltate». Lui lavora qui grazie a un progetto di inclusione sociale avviato col Comune e finanziato dalla Regione che ha rafforzato la collaborazione, che c’è sempre stata, col territorio, la città, i servizi sociali. Qui la sinergia con le altre associazioni, laiche e religiose, è di casa. «Ogni giorno ci sono riunioni per affrontare le situazioni da vari punti di vista», aggiunge Tiraboschi.

Il Centro, tenuto dall’Acisjf (la prima associazione internazionale con uno statuto all’avanguardia per l’aiuto alle donne di ogni razza, religione, ceto sociale), esiste dal 1902, prima nella stazione vecchia di Firenze, poi, dal 1936 in questa, in un locale molto piccolo e successivamente, in accordo con Ferrovie dello Stato, in concessione gratuita nei locali attuali. Le aree di intervento vanno dall’ascolto e orientamento al territorio alla ricerca di lavoro con la stesura dei curriculum, all’erogazione di beni (pacchi alimentari,
indumenti, titoli di viaggio).

E ancora l’accompagnamento sanitario, il sostegno per l’aspetto burocratico, l’assistenza nei progetti di rimpatrio, uno sportello legale, la mediazione familiare. Qui si svolgono corsi di italiano, di inglese (ad esempio per le persone che lavorano negli alberghi), si tengono convegni per la prevenzione del rischio sociale rivolti alle scuole e ai giovani. E non di rado sono le stesse persone approdate all’Help center in stato di necessità a “insegnare” con la loro testimonianza. Come Pompeo, un passato da tossicodipendente e alcolista, una persona dalla ricca umanità, di cui racconteremo la storia in seguito.

L’Help center è strettamente collegato con Casa Serena e Camere Fuligno, spazi dati in gestione da Asp Montedomini, poco distanti dalla stazione, che accolgono mamme con minori, donne sole in cerca di occupazione o con alle spalle problemi di dipendenza superati, famiglie provenienti da sfratto esecutivo. Nel 2015 il monte ore del volontariato attorno all’Help center è stato di 10.511 ore. Fra lavoratori e volontari attivi sono coinvolte 57 persone. Tutta gente motivata, come Giannetta, non più giovane, in prima fila da anni. O come Eugenia, prossima alla laurea in Economia dello sviluppo, che mi confida: «Quello che ho imparato qui in due anni e mezzo dalle persone è molto più di quello che ho studiato. È il motivo che mi fa rimanere. Sono persone speciali, ti ringraziano per la cosa più semplice, diventi un punto di riferimento, ti raccontano le cose più profonde. E rimani ore in più di quanto previsto a parlare».

L’anima di tutto, comunque, è Adriana Grassi, presidente dell’Acisjf Firenze. Una “giovanissima” 80enne, con una lunga esperienza alle spalle, alla scuola di don Milani e don Ciotti. «La stazione è veramente impegnativa – mi racconta –, perché è il primo punto dove le persone arrivano. Se dai le risposte adeguate, indirizzi le giovani donne sulla buona strada, non tanto in un giro assistenzialistico, ma avviandole al lavoro, all’autonomia, all’integrazione, dove noi siamo fratelli e sorelle che le accompagnano. Puntiamo molto anche sul lavoro di rete fra pubblico e privato. Se le persone trovano una risposta immediata, è un costo minore anche per la società».

Le chiedo il segreto di una continuità che dura negli anni, in termini di persone e di risorse economiche. «Quando sono stata eletta – mi risponde –, l’assistente presente in stazione allora, mons. Renzo Forconi, un uomo di grande valore, mi ha detto: “Adriana, cerca di lavorare bene, il resto viene da solo”. Abbiamo puntato alla serietà dell’impegno, come ci richiede l’essere cristiani, perché pensiamo che il bene comune non sia solo un impegno dei politici. Ho la mia età, conosco il dolore e ne capisco il valore, ma non conosco né la noia né la fatica perché viene supportata dalla passione per quello che fai, dalla gioia di lavorare con gli altri. I fondi sono stati trovati sempre probabilmente per il riconoscimento al nostro lavoro per cui si riesce a fare progetti, a non camminare da soli. Tanti lavorano bene, forse la capacità di lavorare insieme premia».

di Aurora Nicosia

Fonte: Rivista Città Nuova n.7 | Luglio 2016 pp.44-46




Il mare è la mia vita

CESENATICO (FC)

Il mare non è solo lavoro, è la mia vita

MAURIZIO CIALOTTI: A BORDO DELLA SUA BARCA IL PESCE
È L’ESCA PRELIBATA PER PROGETTI DI SOLIDARIETÀ E INNOVAZIONE

di Rachele Marini

«Il mare mi ha salvato la vita. Avevo perso il padre e mi aggiravano sulla banchina di Cesenatico in un tempo in cui si nuotava nella droga e molti dei miei amici vi erano annegati. Io invece ero affascinato da quei vecchi che sapevano lavorare con i giovani, dai coltelli con il manico di legno con cui legavano le reti, dagli scherzi che si raccontavano. Mi sono imbarcato con loro. Avevo 15 anni».

La voce di Maurizio Cialotti ha la potenza delle onde che si infrangono sugli scogli mentre racconta della sua passione e descrive “Sirio” e “Madonna delle grazie”, le sue due barche che conduce con altri 4 pescatori: la sua azienda. Sale di tono come la marea quando offre voce ai travagli che hanno rischiato di travolgerlo.

«Nel 1997 per un investimento eccessivo ho rischiato di perdere tutto: casa, barca e affetti, perché quando sei in mare e parti la domenica per tornare il martedì e riparti ancora, non hai più vita sociale. Ero vicino all’isola di Sant’Andrea, quando è arrivata la telefonata di due amici del Focolare a ricordarmi che mi avrebbero sostenuto in qualunque direzione fossi andato. Per la gioia penso di aver camminato sulle acque. Anzi no, sui tonni che ricoprivano ovunque la barca. Non ero solo».

Maurizio con altri marinai ha dato poi vita a un’associazione e a iniziative di solidarietà a sostegno di colleghi in precarie situazioni economiche. Uno degli aspetti più critici della sua attività è la commercializzazione del pescato, talvolta in mano a cooperative che gestiscono in maniera monopolistica e poco trasparente il mercato. «A fine giornata ci siamo visti pagare solo 50 cassette di pesce quando ne avevamo in stiva ben 500. E il pesce non venduto si butta».

Poi è arrivata la proposta di aderire all’Aipec, l’associazione degli imprenditori per l’Economia di Comunione, e questo ha dato a Maurizio lo slancio per ripartire
con una nuova attività. «Con un mio amico commerciante, proprietario di un laboratorio di trasformazione del pesce, abbiamo deciso di aprire una pescheria che mette a tavola le famiglie con 5 euro per offrire un prodotto fresco utilizzando le rimanenze di giornata. Esserci incontrati sui valori dell’Economia civile ci ha dato lo slancio di mettere assieme le nostre competenze e di reinventarci per restare lavoratori liberi».

Fonte: Rivista Città Nuova n.8/ Agosto 2016

 




Puntualità

Purtroppo è prassi, nel mio ufficio, arrivare con mezz’ora di ritardo e uscire mezz’ora prima, cosicché le ore di lavoro da 6 diventano. Mi sento a volte ridicola e a volte pignola, a volte vengo presa in giro dalle colleghe perché cerco sempre di essere puntuale.

Un giorno una domanda aperta: «Ma tu, perché ti ostini a lavorare fino all’ultimo minuto?». Risposta altrettanto chiara: «Sono cristiana, per me sarebbe rubare». Il comportamento delle altre è rimasto lo stesso, ma io non mi sento più ridicola né pignola: adesso loro mi rispettano per la mia coerenza.

F. F. – Italia




Giada

 

Vicino casa nostra abita una donna che tutti emarginano perché non è del tutto normale. Qualche anno fa ha convissuto con un ragazzo di colore che poi l’ha lasciata quando è rimasta incinta. È nata una bellissima bambina mulatta, Giada.

Nel paese, purtroppo, questa bimba non era ben vista. Il Vangelo ci ha aiutati a capire che un modo per far cessare i pregiudizi su di lei era accoglierla noi per farla giocare con nostro glio. Luca, che è più grande, ha ora verso di lei gli atteggiamenti del fratello maggiore e Giada sente di avere una famiglia.

M. M. – Italia

Fonte: Il Vangelo del giorno n.8/ Agosto 2016, Città Nuova, p.53




Un vaglia

Ogni mese cerco di far quadrare il mio bilancio senza intaccare quel poco che ho da parte, ma ogni mese mi accorgo che la cosa diventa sempre più difficile. Tutto rincara e quello che entra a noi pensionati è sempre la stessa cifra.

Proprio una decina di giorni fa, facendo i vari conti, mi accorgo che la mia economia si è andata deteriorando ulteriormente. Ed ecco venirmi in aiuto una frase del Vangelo: «Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia…». Ho cercato d’impostare la mia vita sul Vangelo, ci riesco o no non conta, Lui vede di certo i miei sforzi e la sua misericordia coprirà i miei tanti difetti e sbagli.

La fede che sempre chiedo non mi è venuta mai a mancare anche nei momenti più tristi e dolorosi della mia vita, ed è forse per questo che dopo due giorni mi arriva una raccomandata; vado alla Posta. È un vaglia del Ministero del Tesoro, per una cifra piuttosto considerevole, per arretrati di pensione non corrisposti! Ma ci può essere una risposta più grande di così al nostro credere all’amore di Dio?

Simona – Italia

Fonte: Il Vangelo del giorno n.8/ Agosto 2016, Città Nuova, p.21




Nulla è impossibile all’amore

La testimonianza di Danilo, 29 anni, impegnato del Movimento Diocesano dei Focolari. Il coraggio di donarsi agli altri oltre la malattia.

 
«Nessuno della mia famiglia conosceva i Focolari e, per quel che ricordo, la spinta a tornare ogni sabato all’appuntamento per approfondire il Vangelo era dovuta al fatto che avevo trovato chi mi voleva bene in un modo disinteressato. Sono nato e cresciuto ad Ascoli Piceno, ed ogni anno ho partecipato ai corsi di formazioni per ragazzi, consolidando così il mio cammino di fede.

A 19 anni ho dovuto affrontare un intervento al ginocchio, a seguito del quale si sono presentate alcune inattese complicazioni. Mentre ero ancora in ospedale i medici mi dissero che non avrei più potuto giocare a pallavolo e che non sarei mai più tornato ad avere la piena funzionalità della gamba. In quel momento capii chiaramente cosa volesse dire che “Dio è un ideale che non crolla” e decisi di fidarmi di Lui. Se non potevo più praticare alcuno sport, Egli avrebbe trovato sicuramente altro da farmi fare.

Dopo le scuole superiori ho proseguito gli studi all’università, ma ogni sabato tornavo nella mia città per prestare servizio come animatore nella parrocchia, sfruttando la mia propensione a preparare giochi per giovani e ragazzi. Pur non potendo giocare, ho scoperto quanto fosse divertente e gratificante far giocare gli altri, talvolta sottoponendoli a prove funamboliche!

Negli stessi anni iniziai ad avvertire nel cuore una forte chiamata di Dio a spendere la mia vita per Lui negli altri. Alla Mariapoli 2007, dopo aver ricevuto Gesù Eucarestia, sentii nel cuore quale fosse la mia strada: portare il carisma dell’unità nella mia diocesi. Era una totale scelta di Dio, messa a servizio di una realtà particolare.

Questo tuffo in Dio mi ha portato a vivere la vita nella pienezza della gioia, e in modo particolare mi ha permesso di affrontare una situazione che umanamente non sarei mai stato in grado di affrontare. Nel 2010, infatti, iniziai ad avere nuovi problemi alla gamba che aveva subìto l’intervento, poi all’altra, alla schiena, e nel giro di pochi mesi facevo fatica a camminare e a stare in piedi. I medici non trovavano spiegazioni e, dato che ero prossimo alla laurea, ipotizzarono una sorta di esaurimento nervoso o di depressione.

Io continuavo a sentire nel cuore la gioia di vivere assieme ai miei compagni di avventura ideale, e non capivo cosa mi stesse accadendo. Una sera, mi rifugiai in chiesa e pregai di fronte a Gesù Eucarestia: “Se è nella tua volontà iniziare queste cure, dammi un segno. Se, invece, ho una strana malattia, fammelo capire, perché voglio continuare ad essere un dono per gli altri”.

Con l’ennesima ricerca si scopri che ero affetto da una rara malattia genetica che scatenava tutte le problematiche che stavo vivendo e che tuttora mi costringe a convivere col dolore cronico. Subito i pensieri furono invasi di domande e d’angoscia. Come avrei continuato a vivere per gli altri? Capii che l’Amore di Dio non cambiava neppure di fronte a tutto quel dolore, forse io lo percepivo in modo diverso, ma il suo amore era sempre immenso. Cosa potevo fare allora? Continuare ad amare e a costruire l’unità con tutti, anche se ora è più faticoso, anche se avrei voglia di restare da solo.

Qualche mese dopo mi chiesero di seguire un gruppetto di giovanissimi. Pensavo: ce la farò? Lasciai da parte le paure e decisi di mettermi ancora a servizio degli altri. Oggi devo dire che, in questi anni, i ragazzi del gruppo spesso sono stati la mia forza e il mio coraggio. Perché amando tutto si supera.
Tante sono le occasioni che non avrei mai immaginato di riuscire fisicamente a sostenere, eppure ce l’ho fatta, costatando che davvero “Nulla è impossibile a Dio”».

dal sito www.focolare.org




Fuori dal tunnel – Crisi nella vita di coppia

La crisi nella vita di una coppia può diventare occasione di crescita, ma come fare per riconoscere che la riconciliazione è possibile?

L’esperienza dei “Percorsi di luce” di Famiglie Nuove del Movimento dei Focolari
“La storia di una famiglia è solcata da crisi di ogni genere, che sono anche parte della sua drammatica bellezza”. In questa sua affermazione Papa Francesco (AL 232), sottolinea anche come ogni crisi superata porti a “un nuovo sì dell’amore, che rinasce rafforzato, trasfigurato, maturato, illuminato”.
Tuttavia la crisi, seppur normale nella storia di una coppia, è segnata da un carico di dolore e di angoscia che “non deve essere ignorato e richiede un adeguato accompagnamento comprensivo, vicino, realistico, incarnato” (AL 233).
Ne è un esempio la storia di Antonio e Luisa (i nomi sono di fantasia), sposati da 20 anni e due figli adolescenti. All’inizio , si capivano senza parlare, stavano bene insieme. Ma con il passare del tempo sono cominciati gli alti e i bassi. L’arrivo tanto atteso dopo diversi anni del primo figlio ha finito per scombussolare gli equilibri già precari. “Siamo arrivati a non capirci più ed ogni cosa era oggetto continuo di discussioni. Io ho cominciato a sentirmi solo, racconta Antonio, mi fermavo a lavoro più del tempo per non rientrare a casa, chiudendomi sempre più in me stesso”.
“Vedevo che Antonio stava male, spiega Luisa, ma l’unica cosa che sapevo fare era aspettare che le cose cambiassero. Eravamo due estranei pieni di rabbia e solitudine, incapaci di gestire la nostra vita. La situazione in casa era così tesa che l’unica soluzione possibile era la separazione”.
In quel periodo buio “avremmo desiderato che la relazione tra noi cambiasse, ma da soli non ce la facevamo, si ricadeva sempre negli stessi errori, rancori e discussioni”, racconta lei. “Quando ho saputo della settimana a Loppiano (FI), mi si è riaccesa una luce, una nuova speranza di poter fare qualcosa per il nostro rapporto”.
E’ così che Antonio e Luisa vivono l’esperienza proposta da Famiglie Nuove “Percorsi di luce”, rivolta a coppie che cercano aiuto per poter uscire dalla crisi che stanno attraversando.
Il Corso si tiene a Loppiano , nella cittadella internazionale dei Focolari in provincia di Firenze ed è un’iniziativa avviatasi 8 anni fa. Durante i giorni del Corso “non è stato facile scavarsi dentro per affrontare le nostre difficoltà e abbiamo rischiato di tornare subito a casa”, commentano Antonio e Luisa. “Ma ci abbiamo creduto e ci siamo messi a nudo”.
Quest’anno “Percorsi di luce” si è svolto dal 18 al 25 giugno e Antonio e Luisa vi hanno partecipato portando la propria testimonianza e il proprio contributo: “Abbiamo incontrato non solo degli specialisti, ma una famiglia di famiglie che ci ha voluto bene. E’ stato il primo passo: scoprire di non essere soli. E questo ci ha aiutato anche una volta a casa, perché non è facile ricominciare e ogni tanto cadiamo ancora… d’altronde la famiglia del Mulino Bianco esiste solo in televisione!”
“È la forte presenza dell’amore che circola che aiuta a vivere un’esperienza profonda e di ritrovata serenità insieme con le coppie di esperti ed altre che, avendo fatto il corso negli anni precedenti e grati del dono ricevuto e delle ritrovata riconciliazione, hanno deciso di mettersi a disposizione”, spiegano Francesco e Adriana Scariolo della Segreteria Internazionale di Famiglie Nuove. “La caratteristica del corso è proprio l’amore scambievole, dunque per prima cosa ci si mette in gioco tutti: esperti, coppie animatrici e partecipanti, donando ciascuno il proprio vissuto e come si cerchi di superare le difficoltà”.
Varie le tematiche affrontate durante il corso: dalla conoscenza di sé, alla diversità, al conflitto e all’accoglienza, con momenti frontali, altri di dialogo, esercitazioni pratiche sulla comunicazione, sulla differenza uomo-donna, sulla sessualità e sul perdono. Tutti gli argomenti vengono accompagnati dalla condivisione delle proprie emozioni e da testimonianze su conflitti avuti e superati, alternati a momenti di svago vissuti insieme.
“Questa settimana è stata per molti di noi”, dicono alcuni partecipanti come riaccendere la luce e “ritrovare la voglia di fare la nostra parte per ricreare l’armonia del nostro rapporto. Da tutti emergeva la bellezza e la gioia di aver trovato dei fratelli: “Da soli non si può vincere certe sfide”.
“Le coppie hanno bisogno di dare un nome alle difficoltà che vivono”. Aggiunge Rino Ventriglia, psicoterapeuta. “Per guardare e risolvere i problemi, si offre sia un sostegno spirituale sia psicologico. Abbiamo visto che con questi due approcci le persone riescono a superare ferite che si portano da anni”. Sono ferite che “cerchiamo di valorizzare, con la tecnica della colla d’oro (Kintsugi) che valorizza il vaso”. Continua la moglie Rita, sessuologa, e quella del ‘farsi uno’, che consente di comprendere pienamente l’altro. “Abbiamo tutti la stessa esperienza e diamo la speranza che tutti ce la possano fare, cercando di accompagnarli con determinazione e chiarezza anche quando fanno ritorno alla loro vita di tutti i giorni”.
Auguriamo ad ogni coppia che possa scoprire la buona notizia che, come dice Papa Francesco, si nasconde dietro ad ogni crisi e che “occorre saper ascoltare affinando l’udito del cuore” (AL 232).

Fonte: sito del movimento Famiglie Nuove

Articolo Fuori dal tunnel




La collega antipatica

Una mia collega insegnante ama vestirsi in modo succinto e volgare. «Questa è proprio antipatica», mi sono lasciata sfuggire un giorno, vedendola arrivare. Subito ho sentito l’appoggio di chi mi stava accanto. Ho continuato a fare il mio lavoro, ma una frase non mi dava pace: amare tutti. Tutti? Anche lei? Allora ho cercato di guardarla in modo diverso, senza giudizio, e di coinvolgere anche le colleghe in questo atteggiamento più positivo. Poi mi sono interessata a lei, ai suoi problemi di salute e della sua classe. Solo così mi sono sentita più leggera, libera. Non ci sono scuse: tutti vanno amati.

Emi – Italia

Fonte: Il Vangelo del Giorno, Città Nuova editrice, Gennaio 2016, p. 147




In ospedale

In un momento di buio e stanchezza, in cui mi sembrava impossibile continuare a voler bene agli altri (dal dottore che mi curava ai miei nipotini che volevano giocare con me mentre avevo la eboclisi), mi è tornata a un tratto in luce la volontà di Dio. Mi è sembrato di “risorgere” e mi sono rimessa ad amare magari solo con un sorriso (m’avevano proibito di parlare) e ho perso ogni stanchezza. Che dono vivere l’attimo presente quando si soffre, quando umanamente non se ne potrebbe più… Il futuro si perde e tutto diviene quel presente che è Dio.

Giovanna – Firenze

Fonte: Il Vangelo del Giorno, Città Nuova editrice, Gennaio 2016, p. 18




Siamo in guerra: che fare?

La mattina ci si sveglia con un pensiero dominante, determinato dalle immagini viste e da quelle oscurate…perché eccessive, non elaborabili ormai in nessun modo. Kabul, Ankara, Nizza, Monaco e quante altre città ormai famigliari per le ore passate a cercare di capire, a indignarsi, a piangere.

Il pensiero di questi giorni, il primo, quello non gestibile: “Siamo in guerra, siamo dentro gli anni di piombo mondiali”.

In questi casi prima del “Che fare?” ci si inoltra nel “Che pensare?”.

Ricordi di racconti della più recente guerra, film suggestivi e analisi storiche studiate a scuola. Cosa conta durante la guerra?

E ripenso ai giusti tra le nazioni, quegli eroi “quotidiani” che non sapevano di esserlo, che spesso hanno compiuto azioni seguendo semplicemente la propria coscienza.  Non erano informati, non erano schierati. «Il Giusto – scrive Avner Shalev– simboleggia l’essere umano e la sua capacità di scegliere il bene contro il male e di non restare indifferente».

Queste caratteristiche mi richiamano stranamente persone che conosco. Non sono buoniste (questo aggettivo ormai è un’offesa, è diventato sinonimo di parolaio e superficiale), né hanno un’esatta teoria sociopolitica nella quale ascrivere quanto operano. Fanno atti concreti.

È il caso di Bruna, Mario, Giuseppe (nomi fittizi) che nella loro piccola cittadina laziale vengono in contatto con S. e N. e i loro due bambini di tre e un anno.

In questi giorni si sente parlare della necessità di idee forti che contrastino le idee forti dei terroristi.

Bruna, Mario, Giuseppe e i loro amici le hanno. Sono dentro di loro e Papa Francesco le dice  – e le vive – giornalmente: “Tocca la mano della persona che stai aiutando!; “le comunità paurose e senza gioia sono malate, non sono comunità cristiane”.

È per queste idee forti e soprattutto per la concretezza delle azioni conseguenti, senza troppe analisi, che ad S. e N. viene messo a disposizione un appartamento e comincia una storia.

“S. e N. sono dovuti fuggire dall’Egitto, con la pena di lasciare ciò che più amano. Tutto è iniziato accogliendoli e portandoli per mano come bambini, con turni di visite quasi giornalieri.

A gennaio sono state procurate tutte le cose necessarie: passeggino, omogeneizzatore, seggiolone, tritatutto, ecc. A febbraio erano già in grado di orientarsi per la spesa chiedendo di essere accompagnati solo nei posti più convenienti. A marzo un passo avanti con la predisposizione di uno schema per redigere un vero e proprio bilancio che li aiuti a capire il costo della vita in Italia.

Tutte le settimane, il lunedì e il giovedì, c’è un’equipe d’insegnanti più baby-sitter che a turno si reca  a casa loro per le lezioni d’italiano. Ci sono grandi progressi, pensate che ora riusciamo a comunicare con loro anche telefonicamente, senza l’aiuto dei gesti com’era all’inizio.

La strada è lunga perché in effetti l’arabo è molto lontano dalla nostra lingua, un po’ più semplice il percorso per N. che aveva studiato un po’ d’inglese, più fatica fa S. ma ce la sta mettendo tutta perché sa che la lingua è un ostacolo per il mondo del lavoro.

Il lavoro: questo è un argomento che li rattrista molto perché hanno tantissima voglia di lavorare per rendersi autosufficienti! Quando hanno capito che fino a quando questo non avverrà, sono “sostenuti  anche economicamente”  da tante persone di buona volontà e non dallo Stato Italiano, hanno pianto.

S.in Egitto faceva il calzolaio e ora grazie all’accoglienza di E., un calzolaio del posto, sta facendo un po’ di esercizio in modo da comprendere eventuali diversità nel lavoro. Purtroppo E. non ha lavoro sufficiente da dividerlo con S. e quindi continua la ricerca, su tutti fronti, di un lavoro.

Come in tutte le famiglie ci sono stati anche problemi di salute, influenze dei piccoli, necessità di cure dentistiche ma ogni volta è arrivata una grande disponibilità da parte di pediatri, specialisti e dentisti perché potessero ricevere cure gratuitamente.”

Una storia che si potrebbe ambientare in mille città, in tutta Italia, nel mondo, sotto casa mia: quanti giusti che sanno cosa fare quando si è in guerra!

a cura di Maria Rita Topini

 




Accoglienza

L’amministrazione della mia città stava istituendo un servizio speciale per gli immigrati. Ho sentito la spinta a rendermi disponibile per questo nuovo servizio. Ho cercato di sapere chi, nel palazzo dove abito, avesse risposto all’invito. Incontrando varie famiglie mi sono accorta di quanta avversione ci fosse nei riguardi degli extracomunitari. Nello stesso posto di lavoro molti colleghi erano infastiditi della presenza di immigrati visti soltanto come concorrenti per un lavoro o per una casa. Inizialmente, parlando con i colleghi e cercando di mettere in evidenza l’importanza di accogliere l’altro anche se è diverso da noi, sembrava che il mio apporto fosse del tutto inefficace. Ma lentamente ho visto che sia loro che gli inquilini del mio palazzo hanno cominciato a mostrare un atteggiamento più “morbido”.

(E. M. – Italia)

Fonte: Il Vangelo del Giorno, Città Nuova editrice, Luglio 2016, p. 100




Imparare serve, servire insegna

A Selargius, nel cagliaritano, un docente propone un’iniziativa di solidarietà che coinvolge professori e studenti. Pian piano se ne scopre l’alto valore formativo.

Avvertivo da qualche mese, dopo la partenza per il Cielo di mia madre, non più impegnato nelle necessarie incombenze di assistenza che avevano occupato il mio tempo libero negli ultimi anni, l’esigenza di dedicarmi a qualche forma di volontariato. Al tempo stesso era mio desiderio non svolgere questa esperienza da solo, ma condividerla con altri.

Questo moto personale dell’animo si è incontrato con l’approccio educativo, sempre improntato alla formazione integrale della persona, che caratterizza la mia attività di docente in un liceo scientifico del cagliaritano. Da tempo ritenevo importante poter fornire ai miei studenti la possibilità di conoscere i valori della gratuità e della solidarietà non solo attraverso parole, ma con esperienze concrete di volontariato. Pensavo inoltre che condividere con gli allievi un’attività di servizio esterna alla scuola avrebbe avuto ricadute positive nella relazioni interpersonali.

Ho dunque presentato alla Caritas diocesana di Cagliari un progetto di inserimento settimanale dei miei studenti, da me accompagnati in piccoli gruppi, nella cucina e nella mensa, al fine di svolgere i servizi necessari sotto il coordinamento dei rispettivi responsabili dei servizi.

A questo punto ho pensato di non restringere la proposta alle sole mie classi ma di estenderla, d’accordo con la collega di religione e col consenso del Dirigente, a tutte le quarte e le quinte dell’istituto. Con mia grande sorpresa ho raccolto oltre cinquanta adesioni. A questo punto, però, non sarebbe bastata la mia disponibilità di una sera settimanale per accontentare tutti.

Ho allora proposto al collegio docenti l’approvazione del progetto denominato “Imparare serve, servire insegna”, subordinandolo alla disponibilità di colleghi tutor anche solo per quattro o cinque sere nell’arco dell’anno, a titolo gratuito per non inficiare la motivazione fondamentale dell’attività. Con mia grande sorpresa si sono dichiarati disponibili una decina di colleghi (alcuni per un quattro sere, qualcuno per sei o anche otto) e successivamente altri due hanno offerto la loro disponibilità per eventuali sostituzioni. A questo punto è iniziato il complicato lavoro di redigere il calendario incrociando i giorni in cui la Caritas era disponibile ad accoglierci con le esigenze dei colleghi e dei giovani. Più volte ho dovuto rivedere i turni già predisposti per venire incontro a nuove richieste.

Il servizio, avviato nel mese di novembre 2015, è andato avanti per l’intero anno scolastico con cadenza bisettimanale: con la presenza di un docente tutor per ciascun gruppo che lavorava alla pari con i ragazzi, quattro minorenni si rendevano disponibili per l’aiuto in cucina mentre altrettanti maggiorenni servivano in mensa. L’esperienza è stata percepita subito dai docenti impegnati nei turni per il suo grande valore formativo. Una di loro, dopo la prima sera, ha così commentato: «La sensazione per me e i ragazzi è stata quella di stare in famiglia. I ragazzi si sono superati nel pelare patate, affettare pane e altro, in uno stato di “benessere affettivo” e col sorriso sulle labbra, con una naturalezza assoluta». Tutti i colleghi coinvolti ringraziavano sentitamente per l’opportunità loro data di vivere questa esperienza. L’aver condiviso inoltre questa attività offriva nuovi argomenti di discussione nella sala professori e nei corridoi, contribuendo così a elevare la qualità delle relazioni tra noi.

Anche i ragazzi erano molto contenti per aver provato la gioia del dono di sé, che la quasi totalità di essi non aveva mai sperimentato prima. Quelli poi che hanno servito i pasti alla mensa hanno preso coscienza del dramma della povertà, diffusa non solo tra extracomunitari ma anche nel nostro territorio. Una giovane, inizialmente turbata per aver riconosciuto tra gli utenti un vicino di casa del quale non sospettava la situazione di indigenza, ha subito capito che avrebbe dovuto avere su di lui, nel rincontrarlo per strada, uno sguardo discreto e amorevole. Ha scritto una ragazza sulla sua pagina Facebook: «Non avevo mai partecipato a qualche attività che riguardasse la nostra società né mai mi sono interessata all’attualità. L’esperienza di volontariato svolta alla mensa Caritas mi ha aperto gli occhi. Ho servito cibo a persone con cui viaggiavo in pullman ogni giorno, persone a pochi centimetri dal mio naso e ragazzi come me che vanno all’università e non possono permettersi un pasto, genitori e anziani che non arrivano a fine mese, malati, extracomunitari gentilissimi. In realtà non avrei mai immaginato che a Cagliari ci fossero cosi tante persone bisognose di aiuto, persone normali che vediamo in strada tutti i giorni. Ho imparato che bisogna avere rispetto, che bisogna essere pazienti con chi ti da le colpe dei suoi problemi perché non ha nessuno con cui sfogarsi, ho imparato che se uno ha una mozzarella, tutti devono averne una, perché siamo tutti uguali, al diavolo questo essere prevenuti nei confronti delle persone di altri Paesi: facile parlare da dietro uno schermo, ma basta guardare queste persone negli occhi per capire come tutto ciò non abbia senso. Mi è capitato di servire italiani e non ricevere neanche un grazie di risposta e servire invece uomini “di colore” e ricevere in cambio un sorriso pieno di gratitudine, di speranza, ma anche di tristezza. Il volontariato che ho svolto alla mensa della Caritas ha sollevato quel velo dai miei occhi che copriva la realtà che avevo di fronte».

Una classe quarta, coinvolta per due terzi nel servizio in cucina, ha pensato di organizzare un’iniziativa di sensibilizzazione all’interno del liceo intitolata “Testimoni di solidarietà”: è stato realizzato un breve video su questa attività di volontariato e, dopo aver pubblicizzato l’idea con una locandina sulla pagina Facebook della scuola, i giovani sono passati in tutte le classi promuovendo una raccolta alimentare a favore della Caritas di Cagliari. La risposta dei compagni è stata generosa.

Un ultimo frutto di questa esperienza è stato il rapporto di collaborazione vissuto con l’insegnante di religione che ha appoggiato il progetto: da tempo sentivo l’esigenza di confrontarmi con qualche collega sulle diverse questioni della vita scolastica, senza però riuscire a vivere in profondità e continuità con nessuno la passione per incidere positivamente nell’ambiente scolastico. È stata proprio l’esperienza condivisa nel condurre l’attività di volontariato a far germogliare un prezioso seme di unità.

Daniele Siddi

 

 




Un Vangelo tascabile

Uscendo dal supermercato, noto un giovane accoccolato per terra che chiede l’elemosina. Dai tratti somatici si direbbe un sudamericano. Mentre gli lascio un’o erta, scambiamo qualche parola. Viene dal Perù, vengo a sapere, e sta racimolando i soldi per comprare il biglietto del treno. A un tratto mi fa: «Hai per caso un tagliaunghie?». «Sì, se aspetti qui vado a prendertelo: abito a due passi da qui». Vado, prendo l’oggetto, e torno a portarglielo. A questo punto, il giovane mi fa un’altra richiesta, inaspettata: «Hai anche un Vangelo piccolo?». Ne ho più di uno, ma quello a cui tengo di più (ed è appunto tascabile) apparteneva a mia madre. Senza esitazione rispondo di sì e vado a prenderglielo. Nel breve tragitto mi commuovo al pensiero di quel ricordo di famiglia, ma sono contento di cederlo a chi ora mi rappresenta Gesù.

S.B.R. – Italia

Fonte: Il Vangelo del Giorno, Città Nuova editrice, Luglio 2016, p. 36




Premio Bontà

Vedi anche il recente articolo su Città Nuova Online

PREMIO BONTÀ DON NANDO NEGRI (Fondatore della Città del Ragazzo)

settima edizione 2016
a  VERONICA PODESTÀ (una giovane del Movimento dei Focolari)

“Veronica Podestà, giovane infermiera di Graveglia di Carasco, piccolo paese del levante ligure ha ricevuto il premio “Bontà 2016” in ricordo di don Nando Negri, fondatore del “Villaggio del Ragazzo”, opera fondata dal sacerdote ligure e che ancora oggi promuove e gestisce servizi educativi, socio-sanitari, assistenziali, per il lavoro, per la formazione e l’aggiornamento professionale. Una vita spesa interamente per le periferie e per gli ultimi quella di don Nando. Verso chi è stato messo dalle circostanze dalla vita ai margini e per i diseredati. E alla cui memoria, dopo la sua morte, è stato intitolato un premio destinato a quanti in diversi modi si spendono ancora oggi per i più bisognosi.

Per l’edizione 2016 è stata premiata Veronica, di 25 anni, giovane del Movimento dei Focolari che lavora al Centro Benedetto Acquarone di Chiavari, un’altra delle opere di don Nando. Grazie alla sua tenacia e al suo coraggio, infatti, è riuscita a dare a Daniel, un bimbo della Costa d’Avorio affetto da tetralgia di Fallop, la possibilità si essere operato (con successo) all’Ospedale di Massa.

Nel marzo del 2013 Veronica si laurea come infermiera con un sogno nel cassetto: andare in Africa. Tramite Carlo, un amico genovese del Movimento che vive ormai da molti anni in Africa, riesce a trovare il modo per realizzare il suo sogno e mettersi a servizio professionalmente di una realtà molto diversa da quella che avrebbe potuto affrontare in Italia presso il dispensario di Man, in Costa d’Avorio.

Parte per 3 mesi, che poi diventano 6, 10, un anno. Un’ esperienza forte e bella, sia dal punto di vista lavorativo, dove ha potuto imparare tante cose, ma soprattutto dal punto di vista umano. Perché come racconta, “si parte con l’idea di andare a dare ed invece si torna avendo ricevuto, si parte con l’idea di cambiare il mondo e ci si accorge che per farlo bisogna incominciare a cambiare in sé stessi il modo di stare con gli altri”.

Mentre è in Africa conosce Daniel, la cui storia la colpisce subito per via di una malformazione cardiaca presente dalla nascita, che richiede una cura particolare da fare almeno 2 volte alla settimana al dispensario dove Veronica presta servizio. Ciò che la colpisce di quel bambino è il sorriso che le regala ogni volta che mette piede al dispensario, e di quel suo interessarsi a come sta lei prima ancora di poterlo fare lei con lui. La dimostrazione di una forza d’animo fuori dal comune, nonostante quel continuo andi-rivieni dal dispensario che deve fare insieme alla sua famiglia e le cure da fare per la sua malattia.

La sera in cui cui Veronica torna a casa trova tutti gli amici che aveva lasciato un anno prima nel giardino di casa ad attenderla per una festa. Alla fine della serata qualcuno le chiede: “Che cosa ti porti dentro da questa esperienza?”. Il pensiero va al sorriso di Daniel il giorno in cui si sono saluti in Africa. Nei mesi in cui si trova in Africa l’avevano raggiunta per un periodo altre due amiche, Stefania e Letizia. E’ proprio quest’ultima che tornando aveva incominciato a prendere contatti con l’ospedale di Massa per un’eventuale operazione. Intanto l’entusiasmo di Veronica contagia chi le sta attorno, e un mese dopo il suo ritorno con una nutrita squadra di amici della mamma organizzano un apericena per raccogliere dei fondi per permettere a Daniel di venire in Italia ad operarsi.

Da lì ad un mese Daniel arriva a Genova accompagnato dal papà e da Carlo, il focolarino che li aveva aiutati dall’Africa in tutte le pratiche burocratiche e dove rimane fino alla data dell’intervento a Pisa. Sono due mesi intesi, alla scoperta del mare, della neve e dell’incontro e scambio arricchente tra due culture. Daniel viene operato con successo e il papà, che aveva promesso al figlio una bicicletta in caso di superamento dell’operazione, si trova in difficoltà perché è un regalo molto costoso. Giusto il tempo di confidarlo che, senza saperlo, un’amica di Veronica per la sua festa di compleanno raccoglie dei soldi e decide di destinarli a Daniel, ormai conosciuto da tutta la comunità: quella busta contiene giusti i soldi per poter comprare la bicicletta desiderata da Daniel! Il seme lanciato da Veronica, che con la sua caparbietà è riuscita a dare la possibilità a Daniel di “vivere” una seconda volta attraverso l’operazione, si è trasformato in una solidarietà contagiosa”.

Daniela Baudino

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IL PREMIO E’ STATO CONSEGNATO IL  9 LUGLIO CON QUESTE MOTIVAZIONI:

“Il “Premio Bontà Don Nando Negri” 2016 a Veronica Podestà vuole riconoscere in lei, nel suo impegno, nella sua giovanile dedizione, nella sua capacità di “arricchirsi” donando se stessa agli ultimi, quello stesso spirito che guidò don Nando nella sua opera terrena”.

 

 




Rassegnarsi? No, grazie

Rassegnarsi? No, grazie

Come un’insegnante nel quartiere degradato di una grande città prova a non arrendersi allo squallore, al disordine e all’illegalità

Ogni mattina mi capita di vivere un’avventura sempre nuova e sempre sconcertante.

Esco di casa ed una breve passeggiata nel traffico mattutino mi porta alla metropolitana; respiro l’aria intrigante di una delle più grandi città d’Italia. Grande in tanti sensi: per la sua storia, per la sua gente, per le sue potenzialità, per le sue ricchezze di ogni genere, per il suo calore, per la sua sofferenze, per la sua dignità.

Entro in metropolitana fra volti sconosciuti ma non estranei; immagino storie, intrecci, fatiche… Poche fermate; esco dal tunnel, risalgo in superficie e… mi ritrovo – come Harry Potter! – in un altro mondo.

Il grigio di edifici scrostati ed imbrattati al limite dello squallore, marciapiedi sconnessi, cassonetti arrugginiti, rifiuti di ogni tipo disseminati lungo la strada: materassi, pezzi di elettrodomestici, mobili squartati, vetri rotti… tra le crepe dell’asfalto qualche timido ciuffo d’erba si affanna a dare un segno di speranza.

Un’altra passeggiatina e mi ritrovo a scuola; l’edificio non ha niente da invidiare al resto del rione: già entrarci richiede un grande atto di coraggio. Il coraggio di entrare nel ‘brutto’, nel ‘non accogliente’, nel ‘disordine’.

La scuola è praticamente sfornita di tutto, dell’essenziale, del necessario. Le classi, spoglie e disordinate, si affacciano su un corridoio che i colleghi chiamano significativamente il ‘miglio verde’, dall’appellativo del tragitto che nelle carceri americane porta dalle celle alla sedia elettrica.

Non disponiamo di un’aula docenti dove custodire in modo sicuro i documenti e i materiali (la scuola nei momenti notturni è spesso visitata…), lavorare serenamente, ricevere i genitori. Una stanza sufficientemente ampia c’è… ma è da anni diventata un deposito polveroso, pieno di scatole, libri vecchi, materiale dimenticato o inutilizzabile, anche ingombrante; risistemarla sarebbe un’impresa non da poco: tempo oltre quello del servizio, energia, materiali da comprare. Il personale ausiliario non è disponibile; tra i colleghi inizia la polemica: «Non tocca a noi», «Facciamo già abbastanza per uno stipendio inadeguato», «Non se ne parla proprio»…

Senza discutere troppo, ci accordiamo con un gruppetto di colleghi disponibili e motivate e diamo inizio ai lavori: scope,  stracci, buona lena e gioia di stare insieme per qualcosa di positivo. In due mattinate il magazzino diventa un’ariosa stanza con scaffali ordinati e sedie pulite (anche se non ce n’è una uguale all’altra!!!). L’ambiente aiuta e vuole esprimere l’impegno a rendere bello il nostro lavorare insieme per questi ragazzi che, anche se inconsciamente, hanno sete di bellezza e armonia.

Ma non è solo una questione di estetica o un capriccio; ci sono carenze ben più profonde che ci sfidano ogni giorno: la mancanza di strumenti didattici e tecnologici di base che potrebbero in qualche misura venire incontro alle esigenze di 110 ragazzini che vivono qui sei ore di ogni loro giornata. Hanno tutti facce e sguardi vivi, intelligenti… 110 paia di occhi dietro ai quali spesso si nascondono casi familiari e situazioni border line: genitori in carcere, altri latitanti, parenti morti in lotte fra clan, madri-ragazzine, famiglie ricombinate…

Sul rione incombe una cappa pesante, più pesante del cemento sporco che fa da sipario alle viuzze percorse da motorini sfreccianti, alle botteghe anguste, alle piazzette ed alle edicole dove si traffica, si spaccia, si decide.

E questa è l’amarezza più profonda che provo ogni mattina quando entro in questo mondo che, pur lontanissimo da quello in cui vivo, sento ogni giorno di più ‘mio’.

L’amarezza di constatare come il destino dei ragazzi che tutti i giorni mi vengono incontro sembri già deciso, segnato. La loro vivacità (a volte la loro sfrontatezza), la loro intelligenza, la loro voglia di vivere merita qualcosa di più che pomeriggi trascorsi davanti ai videogiochi o in giro per le strade ad imparare dai più grandi i trucchi e gli espedienti meno nobili per tirare a campare.

Le loro ambizioni (loro non lo sanno…) possono elevarsi molto oltre il raggiungimento del presunto prestigio di un boss o le unghie laccate per sembrare più grandi.

Ci si sente impotenti, sognatori senza speranza.

Un rione dove la miseria non è economica: è umana.

Un rione che sembra dimenticato da Dio e dagli uomini.

Un rione che non conosce spazi aggregativi, attività sociali, spiragli di futuro.

Un rione dove i ragazzi vengono a scuola per crudo obbligo, per paura dei carabinieri a casa.

Una mattina, entrando più tardi in classe, sono stata alla messa nella chiesa della zona. La celebrazione era accompagnata dalla musica ad alto volume che arrivava dalla strada: neo-melodici a tutto spiano, secondo i gusti del posto; a pochi metri dalla chiesa il ‘centro direzionale’ del quartiere: la materializzazione dell’illegalità, del disprezzo per il bene, dell’offesa ad ogni valore e ad ogni diritto.

Le parole del Vangelo del giorno risuonano forti come mai. «Gesù cominciò a dire: questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno…»..  Il cuore si fa piccolo… un velo di tristezza, una domanda: «Come fare? e se quel ‘segno’ potessi – con altri – essere anch’io? Ma come? Da dove cominciare?».

Con i colleghi siamo una bella squadra: non ci arrendiamo facilmente, anche se spesso ci ritroviamo con armi spuntate.

Con le assistenti sociali, i carabinieri del territorio c’è una collaborazione che può senz’altro crescere ma che è già un punto di forza.

Con le istituzioni… beh… il sindaco ed un paio di assessori sono passati di qui; hanno elogiato il nostro operato, hanno verificato difficoltà, carenze e pericoli; vedremo…

Ma in quel momento, davanti al tabernacolo, si riaffaccia un suggerimento importante: confidare nell’Onnipotente con quella fede che opera “miracoli”.

Ritrovo dentro una certezza:  davanti al Male che sembra dominare coscienze, rapporti, famiglie intere… solo il Bene può essere ‘la’ risposta, quel Bene ariete di luce e di speranza che sfonderà – prima o poi – il muro della malvagità, della violenza, dell’ingiustizia.

di Maria Silvia Dotta

 

 

 

 




Un concerto sui generis

Come trasformare un luogo di dolore in un ambiente dove socializzare e ritrovare serenità

«Le viti». « Le ho in mano». «Hai con te il cacciavite? ». «Ce l’ho in tasca». Mentre montiamo il pianoforte guardiamo l’accettazione pediatrica di fronte a noi: barelle e sedie a rotelle che vanno e vengono, famiglie sedute ad attendere col bigliettino in mano, che chiamino il loro numero, la voce atona che annuncia: «A, zero, settantadue». Non ci sembra possibile che questo sia il luogo dove Enrico terrà il concerto.
Si avvicinano premurose due addette alle pulizie, ci chiedono cosa possono fare per noi. Così inizia il dialogo con loro; saputo che Enrico non è un maestro di musica, ma un pianista, una di loro prende coraggio e va a parlargli. Da sempre le piace la musica classica. Non troviamo la presa per la corrente; la più vicina è all’incirca a sette metri di distanza; guardiamo verso la TV ed in alto, ma proprio in alto, troviamo la soluzione dei nostri problemi. Il pianista mi dice: «Tu ci sai arrivare, vero? Arrampichi». «Certo – rispondo – ma ci vuole una scala». La gente ci guarda, noi sosteniamo la parte…. Al “maestro” viene in mente di suonare un pezzo; chiede alle ormai nostre amiche di ascoltare per dare un giudizio. Attacca.
L’accettazione si trasforma. Il rumore diventa brusio, poi soffio. Le famiglie – col numero in mano – non puntano più gli occhi sul display dei numeri, qualche bimbo si siede a fianco del pianoforte. Sì. La musica porta un’aria magica, trasformante.
Intanto arrivano i e le protagoniste del concerto: un bel gruppetto proveniente da neuropsichiatria, altri da otorino e chirurgia. Bach rompe il ghiaccio, seguito dalla “Marcia turca” di Mozart. Il silenzio è lieve, la trasformazione dell’ambulatorio in sala da concerto è avvenuta. Solo lo schianto rumoroso delle lattine che precipitano lungo la macchinetta delle bibite ricorda dove siamo.
L’idea del concerto è nata dal rapporto con questi degenti, alcuni da mesi ricoverati in ospedale, e dalla scoperta che a diversi di loro piace la musica classica; alcuni addirittura suonano il piano. Una degente chiede la “Sonata al chiaro di luna”. Viene accontentata dal magistrale pianista che … suona il piano senza utilizzare lo spartito … «Me ne sono accorta, sa, che è bravo, anche perché certi pezzi li suonava a memoria», mi confidava il giorno dopo la stessa degente. Seguono pezzi di musica moderna, inframezzati dagli applausi degli astanti e dai dialogo fra loro ed il pianista.
Intanto diversi ragazzini fanno capolino; erano al pronto soccorso (pediatrico) e… la curiosità ha battuto il dolore. E’ proprio vero che l’anima ha sete d’infinito e che questo passa dalla musica.
Una nutrita schiera di dottoresse, infermiere, ausiliarie entra a far parte del pubblico presente e batte a ritmo i piedi sul pavimento mentre ascoltano un rag-time travolgente. Sì, queste periferie dimenticate, questi bambini e bambine a volte soli col loro dolore, fisico e spirituale, che lottano insieme coi genitori battaglie che sembrano più grandi di loro, desiderano in fondo un momento di amore, semplice, profondo.
«Volete che vi suoni qualcosa che vi piace? ». La richiesta è accolta con un «Sì, un adagio di Mozart». Seguono brani di Einaudi ed Allevi, per giungere all’ultimo pezzo: “La campanella” di Liszt. Non è un pezzo facile, ed infatti una signora tenta di rompere l’incanto, prendendo dalle macchinette nell’ordine: una brioche, un caffè, una lattina. Tutto inutile; nonostante i suoi tentativi, il pubblico è ormai passato su un altro piano: quello dell’arte. C’è chi chiede un pezzo di Debussy, chi di Shostakovich o Chopin. E’ passata un’ora e venti , molto più di “quell’ora di serenità” che il pianista aveva dedicato ai presenti. Si forma un crocchio attorno ad Enrico , poi il personale raccoglie i degenti e in pochi minuti ci ritroviamo nell’accettazione pediatrica, insieme alle due signore addette alle pulizie che ci aiutano a rimettere tutto a posto. Tutto finito? No, crediamo proprio di no.

 




Accade su Whatsapp

In una classe delle scuole medie anche un messaggio con il cellulare può costruire relazioni migliori

di Elisa Ward

Come, forse, i genitori avranno notato, nei gruppi di WhatsApp tra gli studenti delle scuole
medie capita di tutto. Frasi sconce, parolacce, insulti sono episodi spiacevoli non così rari. Un giorno, nel gruppo della mia classe, una compagna non è potuta venire a scuola e ha chiesto se qualcuno fosse disposto a mandargli la lezione che aveva perso. Invece di aiutarla, molti ragazzi le hanno spedito, via cellulare, il dito medio: un simbolo molto volgare. La mia compagna allora ha scritto: «Immaginate che la stessa cosa sia capitata a voi. Per qualche motivo vi siete assentati e siete costretti a chiedere la lezione per poterla recuperare. Vi farebbe piacere essere trattati in questo modo? Per favore, non fate agli altri le cose che non vi piacerebbe fossero fatte a voi!». Non mi trovavo a casa, ma le ho scritto che appena avrei potuto le avrei mandato ciò che le occorreva. Così ho fatto. Lei mi ha ringraziato molto perché, dopo un’intera giornata, nessuno della classe le aveva risposto. Dopo questo episodio, che lei ha molto apprezzato, siamo diventate ancora più amiche.

(tratto dalla rivista Città Nuova n.6 /Giugno 2016)




Una vita (im)possibile

Notizie da condividere – dal Collegamento CH del 13 dicembre 2014

Chiara, Ada, Marco. La storia di una famiglia che abbraccia e stringe a sé quella di molte altre.

collegamento 2014/12/13/una-vita-impossibile/

 




Cosa ho imparato dai carcerati

Esperienza apparsa sul sito focolare.org

Cosa ho imparato dai carcerati

«Ero impiegato da ispettore merceologico, ovvero, controllo qualità, quantità, peso, ma per motivi aziendali, sono stato licenziato. Ho perso tutto: lavoro, famiglia, dignità. Dopo alcuni mesi mia moglie mi ha inviato la lettera di separazione, portandosi via la nostra unica figlia di 5 anni. Come se non bastasse e per avere ascoltato anni prima un consiglio del suocero, sono stato arrestato per truffa, millantato credito, associazione a delinquere. In realtà, però, non avevo fatto nulla! Ho provato una vergogna infinita, anche per i miei cari, e una rabbia smisurata! Dov’è, mi chiedevo, quel Dio che tutti proclamavano buono e che, invece, permetteva ingiustizie come questa?

Sono stato 15 giorni in carcere, di cui 5 giorni in isolamento, chiuso in una cella di 2m per 2, privato di tutto: della libertà di aprire una finestra, di vedere o parlare con chiunque.

Poi, una volta uscito dall’isolamento, mi sono dovuto confrontare con spacciatori, tossici, ladri, violentatori, rapinatori. Erano uomini.

In carcere sono stato rispettato da tutti perché avevano la certezza – anche senza conoscermi – che ero del tutto innocente, che quello non era il mio posto. Era il loro modo per restituirmi la dignità che mi era stata tolta. Ho imparato molto dai carcerati.

Ero in libertà provvisoria quando i miei familiari mi hanno convinto a partecipare ad una Mariapoli, dicendomi che andavamo a riposarci 4 giorni. Ho incontrato una nonna dai capelli bianchissimi che mi parlò di Dio Amore. Proprio a me che avevo fortemente dubitato di quel Dio buono. Mi si è illuminato un mondo nuovo e immenso, come se già lo conoscessi, ma non l’avevo mai esperimentato prima. Ho capito che per camminare per la strada dell’amore, non si può prescindere da quello che allora chiamavo dolore e che ora identifico con le sofferenze di Gesù sulla Croce. Quando si vive nel dolore più profondo siamo più disposti ad ascoltare Dio, il quale ci dona una vita più piena e più grande. Oggi non serbo rancore per la mia ex moglie, il suocero e per mia figlia, che in questi anni non mi aveva più voluto vedere.

Sono stato assolto con formula piena, perché 3 anni dopo hanno appurato che ero del tutto estraneo ai fatti contestatimi.

Non potevo tenere per me quello che la mia vita mi aveva insegnato, sentivo forte dentro di dovermi donare agli altri, soprattutto ai giovani. Ho iniziato con 5 ragazzi di 11/12 anni, che non sapevano nulla di fede, né loro né i genitori. Ho cominciato giocando a calcio per ore, poi riaccompagnandoli a casa, chiedevo loro solo di fare un semplice gesto d’amore verso la famiglia.

Oggi questi giovani sono cresciuti, alcuni sono entrati nel mondo del lavoro ma, soprattutto, anche loro hanno voluto ridonare ad altri quello che hanno ricevuto, portando la certezza dell’amore di Dio a tanti.

Non finirò mai di ringraziare Dio per avermi concesso di amare senza pregiudizi, conoscere che Lui è Amore, che ama ciascuno di noi personalmente e che tutti siamo uguali, tutti figli suoi».

(Erasmo – Italia)




Due colibrì per i rifugiati

Articolo apparso su S.U.B information

Carla e Davide, due colibrì per i rifugiati

Nella foto Davide con alcuni degli amici

Video apparso nel collegamento CH del 20 giugno 2015

collegamentoch/2015/06/20/la-piccola-goccia-del-colibri




Malattia: il limite trasformato in ricchezza

malattia-il-limite-trasformato-in-ricchezza

esperienza apparsa sul sito delle Famiglie Nuove

http://www.focolare.org/famiglienuove

20160213-0215 febbraio 2016
La testimonianza di Giulio Ciarrocchi a margine della Giornata mondiale del malato (11 febbraio), da 21 anni alle prese con le gravi conseguenze di un ictus.
20160213-02«Uscendo da casa il 3 maggio di 21 anni fa per raggiungere la banca dove lavoravo, non pensavo certo che la sera non vi sarei tornato. Un forte mal di testa aveva costretto i miei colleghi a portarmi d’urgenza in ospedale. Avevo 49 anni, una vita professionale ben avviata, una promozione imminente, una bella famiglia con tre figlie dai 18 ai 14 anni. Improvvisamente mi sono ritrovato su una carrozzina che neppure riuscivo a governare perché, oltre all’uso della gamba, avevo perso anche quello del braccio. Ero diventato un nulla: dovevo essere aiutato a mangiare, lavarmi, vestirmi… dipendevo in tutto dagli altri. Sentivo dentro disperazione e angoscia, sentimenti che cercavo di scacciare perché sapevo che non erano la soluzione. Da quando avevo abbracciato la spiritualità dei Focolari, avevo imparato a rendermi disponibile alla volontà di Dio, e anche se non capivo il perché di questo sfacelo, con mia moglie Pina abbiamo voluto credere che pure questo era amore di Dio per me, per noi. Anche le nostre figlie si sono lasciate coinvolgere in questa scelta e fin dai primi giorni mi sono ritrovato una forza e una pazienza che non avrei mai pensato di avere. In pochi mesi ho recuperato l’uso della gamba e seppur con grande fatica e col supporto di un collega che mi accompagnava, sono riuscito a tornare al lavoro per altri 7 anni. Poi non ce l’ho più fatta.

20160213-01Già allora la mia inabilità non mi consentiva di camminare se non per brevi tratti, non potevo più guidare l’auto, farmi la doccia da solo, abbottonare i vestiti, tagliare il cibo nel piatto, avvitare una caffettiera, abbracciare mia moglie e le figlie. Non potevo fare, insomma, tutti quei gesti per i quali occorre l’uso delle due mani. A volte, più amara ancora era la paura. Paura di non farcela ad andare avanti come coppia, paura della solitudine, della mia fragilità di fronte alle diverse situazioni, del dubbio di saper ancora svolgere il ruolo di padre, e così via. Poi sono subentrate altre sospensioni di salute: ricoveri in ospedale, un tumore fermato in tempo, cadute con fratture, ecc. Oggi con tenacia continuo a fare le fisioterapie, anche se so che prospettive di guarigione non ce ne sono. Ma almeno aiutano a rallentare il processo invalidante.

Più forte di tutto questo però, avverto dentro di me la grazia della vicinanza di Dio in ogni attimo. In questi 21 anni la raffinata fedeltà di Dio mi ha sempre accompagnato, con la delicatezza e la tenerezza che solo Lui sa dare. Con Pina abbiamo imparato a lasciarci portare da Lui, a farci sorprendere dal suo amore. E quando tutto sembrava crollare, o diventava precario o confuso, in fondo al cuore percepivamo che questo partecipare – in qualche misura – al mistero di Gesù sulla croce, era per noi un privilegio. Come Lui anch’io, anche noi cerchiamo di superare il dolore amando tutti quelli che sono intorno a noi, sperimentando, in quella che possiamo chiamare ‘alchimia divina’, che il dolore è come un talento da far diventare amore.

20160213-03Dio mi/ci ha presi per mano e, svelandoci poco a poco il suo progetto su di noi, ci ha fatto il dono di entrare in profonda intimità con Lui e fra noi, facendoci comprendere – nella luce – anche il misterioso significato del dolore. E quello che poteva sembrare un limite si è trasformato in ricchezza, quello che poteva fermarci si è tramutato in corsa, anche per la forte condivisione con tanti altri. Dio ci ha resi più sensibili e misericordiosi con tutti quelli che con tanta fantasia ci mette accanto. Facendoci sperimentare che anche una malattia invalidante non toglie la possibilità di essere strumenti nelle mani di Dio per il prossimo».

Giulio Ciarrocchi