Un doppio ritrovamento

Eravamo al mare in vacanza. Quella mattina sulla spiaggia c’era anche un gruppo chiassoso di ragazzi. Due cominciano a lottare nell’acqua bassa presso la riva; non capisco se fanno sul serio o per gioco. Il fatto è che dopo pochi minuti uno dei due si rizza in piedi e grida: ”Il mio braccialetto… l’ho perso!” e si tuffa per cercarlo, seguito da un paio di amici.

Ogni tanto riaffiora per respirare e grida il suo tormento: “Non lo trovo… è un regalo della prima comunione!” e poi lancia qualche improperio all’altro lottatore. Io mi avvicino e presto ai cercatori la mia maschera col boccaglio per agevolare la ricerca. Alcune ragazzine del gruppo seguono la scena dalla riva.  Pian piano serpeggia fra tutti la sfiducia e il pessimismo.

Mi dispiace vedere dei giovani ‘buttare la spugna’ così facilmente, vorrei dire a loro la scoperta che ho fatto: che abbiamo un Papà che ci ama, a cui possiamo chiedere aiuto. Ma chissà se mi capiscono! Sento che questi ragazzi hanno l’accento napoletano, allora mi viene un’idea e arrischio: “Chiediamo a San Gennaro e Sant’Antonio di aiutarci a trovarlo!” e racconto alle ragazzine cosa mi è successo qualche tempo prima.

Ero a Roma quasi pronto per un volo per il Kenya. Con me c’era anche un gruppetto di asiatici in attesa di partire per l’Estremo Oriente. Uno di loro esce con tutti i loro biglietti per portarli a vidimare all’agenzia viaggi. Poco dopo telefona e dice dispiaciuto: “Sono stato derubato dei biglietti aerei e di un po’ di dollari, mentre ero sull’autobus superaffollato… vado a denunciare il fatto dalla polizia”. 

Vedo le facce dei miei amici diventare più pallide e preoccupate. Allora mi lancio: “Chiediamo tutti insieme all’Eterno padre che ci aiuti a trovarli! Sapete che qui in Italia chiediamo anche a Sant’Antonio un aiuto particolare?”. Vedo che dopo questa preghiera si rasserenano e tutti torniamo alle nostre occupazioni e preparativi. Ma a quel punto mi assale un pensiero: ‘Ho accennato loro alla comunione dei santi che sono in Paradiso per aiutarci, ma se i biglietti non si ritrovano più, che figura faccio fare davanti a loro ad esempio a un Sant’Antonio, dato che già vengono da culture così diverse?’ Rinnovo allora la mia preghiera con più forza.

Dopo circa 1 ora arriva un telefonata che riporta il sorriso su tutti i volti: “Sono stati ritrovati i biglietti!!!” Era successo un fatto strano: probabilmente il ladro sull’autobus si era impadronito del denaro e per disfarsi dei biglietti aerei li aveva infilati dentro l’ombrello di una signora che, quando è scesa dall’autobus, aprendo l’ombrello ha invece visto piovere questi biglietti.

L’autobus era già ripartito, così lei li ha portati dalla polizia per la quale quei nomi cinesi dovevano essere proprio un rebus senonchè sul risvolto di uno c’era scritto Giuseppe e un numero di telefono: era un amico italiano dei cinesi che subito si è dato da fare per restituirli ai legittimi proprietari che conosceva bene. E io subito ho pensato: “Sant’Antonio ha colpito ancora!”.

Il racconto di questo fatto ha ridato un po’ di speranza e serenità al gruppo dei ragazzi napoletani anche se non hanno trovato nulla. Il mattino dopo siamo andati alla stessa spiaggetta e con la maschera mi sono messo di buona lena a scandagliare l’area sott’acqua ed ecco che il guizzo di un pesciolino mi attira e dietro tra la sabbia un luccichio: quasi non ci credevo, ma era il famoso braccialetto d’oro semisommerso nella sabbia.

Ho ringraziato l’Eterno Papà per il suo amore grande e gli ho chiesto di aiutarmi a trovare il ragazzo proprietario. Per caso la sera nella piazza del paese ho rivisto il gruppo e restituendo il bracciale tra lo stupore di tutti ho detto loro: “Goal! San Gennaro e Sant’Antonio hanno ancora fatto goal!”.

Gabriele Fabbri




Nascita di una comunità

Il nuovo quartiere in costruzione era ancora privo di una parrocchia. Poiché le famiglie che vi si sarebbero trasferite avrebbero avuto bisogno anche di un sostegno spirituale, il vescovo mandò due preti.

A me e a mio marito l’a abilità e la non comune capacità di ascolto di don Romano diedero subito l’idea di aver trovato un amico. Anche a noi, come ad altre famiglie, propose di formare la comunità cristiana approfondendo il Vangelo e trasformandolo in vita vissuta. Entrambi demmo la nostra disponibilità.

Pochi giorni dopo conoscemmo anche don Gianni e la sintonia notata tra loro due ci dette la misura concreta del messaggio che portavano. A Natale Gesù nacque «al freddo e al gelo» nel garage di un nuovo condominio, ma non ricordiamo un’altra notte di Natale in cui i nostri cuori avessero vibrato altrettanto.

Iniziammo così una nuova esperienza e, allenandoci con sempre maggiore intensità nella vita del Vangelo, scoprimmo un modo nuovo di essere Chiesa, con al centro la Parola di Dio. Il nostro gruppo crebbe di conseguenza.

(Tratto da il Vangelo del giorno, Città Nuova, anno V, n.6, novembre-dicembre 2019)




Dopo il divorzio, di nuovo il matrimonio

La nostra famiglia è composta da 6 tra fratelli e sorelle, cresciuti con una educazione cristiana vissuta nei fatti, magari poco capace di esprimere con le parole che ci volevamo bene; ognuno di noi si è formato una sua famiglia e abbiamo avuto dei figli.

Fra tutti, mia sorella più piccola ha sempre manifestato insofferenza nel rapporto col marito e negli anni, nonostante la presenza di due figlioli, gli attriti e le diverse idee su tanti aspetti della vita, hanno creato ferite profonde; nel tempo ha anche manifestato un disturbo psicologico importante. La sua fragilità era a volte visibile, a volte no, ma è stato comunque difficile negli anni poter essere di supporto in qualche modo proprio per la scarsa capacità da parte di noi fratelli di comunicare e di condividere.

L’aiuto maggiore lo ha potuto dare mia sorella più grande che abitava vicino ed era più a stretto contatto con lei. Quando tra noi si parlava di lei spesso non sapevamo cosa dire se non che la vita matrimoniale è fatta anche del sopportarsi e di lasciar perdere…. poi mio cognato era sempre rimasto in famiglia e mai aveva lasciato intendere di volersi separare.

Quando invece tutti e due i figlioli sono divenuti maggiorenni è stata mia sorella a prendere l’iniziativa dicendo che non intendeva continuare questa farsa e che lei si sarebbe separata. Nel frattempo nostra madre era morta, era rimasto solo nostro padre che non aveva mai espresso idee al riguardo ed era molto anziano.

La sua decisione ci ha sorpreso perché, nonostante la sofferenza che percepivamo, credevamo che lei non sarebbe stata in grado di essere autonoma sia dal punto di vista economico che dal saper stare senza di lui. E invece si sono separati con tante fatiche e ripicche che i figli hanno cercato di smorzare, essendo quasi sollevati dalla decisione della mamma.

I contatti con nostro cognato che è uscito di casa ed è tornato ad abitare con la madre si sono fatti via via più radi. Solo nostra sorella maggiore è riuscita a non perderlo completamente di vista e anche i figli hanno cercato a modo loro di tenere un rapporto con lui.

Sono passati altri dieci anni e forse più, la separazione è diventata divorzio, i figli di mia sorella hanno messo su famiglia, mia sorella quattro anni fa è diventata nonna prima di un bellissimo bimbo e poi di una bimba. Negli anni l’abbiamo vista riacquistare una certa stabilità emotiva, unico argomento che la amareggiava era sempre quello dell’ex marito.

Finchè, un anno fa, veniamo a sapere che lui è ammalato e che sta curando un tumore piuttosto aggressivo. Mia sorella ha reagito in modo distaccato, dicendo che la cosa non la riguardava, al massimo che era dispiaciuta come lo si può essere per qualunque altra persona. Come non darle torto?

Negli anni aveva lasciato intendere a più riprese di quanto fosse stato negativo per lei il rapporto col marito, di quanto avesse sofferto. Io e un mio fratello, con cui condivido la Spiritualità dell’Unità del Movimento dei Focolari, abbiamo pensato di pregare intensamente sia per nostro cognato che per la nostra sorellina (l’abbiamo sempre considerata più fragile e bisognosa di amore) e anche per i figli che si stavano facendo carico della malattia del loro papà.

In breve tempo la situazione di nostro cognato è precipitata. I medici gli hanno comunicato che oramai le cure non facevano più effetto e che gli restavano pochi mesi di vita. Gli consigliarono il ricovero in un hospice. Lui ha manifestato il desiderio di incontrare nostra sorella e lei, dopo giorni di dubbi, ha accettato.

Nella prospettiva della morte vicina sono riusciti a comunicare in modo nuovo e chiarificatore, ammettendo vicendevolmente difetti e incapacità del passato. Mio cognato ha insistito per sposare di nuovo mia sorella per poter trovare una pace nuova e per lasciare a lei, sempre in difficoltà economiche, la reversibilità della sua pensione che da poco percepiva: ha accettato e anche lei si è sentita con una serenità inaspettata.

Il giorno successivo al matrimonio, avvenuto in casa, coi figli vicino, mio cognato ha accettato di trasferirsi all’hospice dove tutti noi, a turno, lo abbiamo visitato e dove è morto pacificato, esprimendo sentimenti affettuosi verso tutti.

Pensiamo che tutto questo sia un piccolo, grande miracolo, il frutto del pregare insieme e del credere che tutto vince l’Amore.




Acqua in un terreno arido

Già vedova, da poco avevo perso anche mio figlio per un incidente. Durante il giorno il lavoro un po’ mi distraeva, ma poi veniva il terribile momento del rientro a casa… una casa silenziosa, dove nessuno mi aspettava.

Quella sera mi sorpresi alla telefonata di una giovane collega d’ufficio. La voce le tremava come se stesse lì lì per scoppiare in pianto. Quando Donatella cominciò a sfogarsi per una incomprensione del suo fidanzato, dovetti frenare un moto d’impazienza.

Ascoltare le lamentele altrui per problemi di così poco conto rispetto a ciò che mi bruciava dentro mi riusciva insopportabile. Tuttavia mi sforzai di ascoltarla, almeno per educazione.

A poco a poco un nodo cominciò a sciogliermisi dentro. Per un attimo mi “dimenticai” e quasi senza accorgermene mi vennero alle labbra parole di conforto, di speranza, tanto simili a quelle che altri avevano cercato per me.

Lo strano era che, oltre all’amica, anch’io ne ero risollevata. Come un’acqua che viene a ristorare, non si sa da dove, un terreno arido.

(Tratto da Il Vangelo del giorno, Città Nuova, anno VII, n. 3, maggio-giugno 2021)

 




Solidarietà a distanza

All’inizio il distanziamento consigliato per difenderci dalla pandemia non m’era pesato più di tanto, dal momento che vivo sola per scelta. Ma col passare dei giorni quella che era risultata una novità ha manifestato tutti i suoi lati negativi e la lontananza fisica dalle amiche, la mancanza della vita in società si son fatte sentire.

Un giorno, telefonando a un’amica e sentendola lamentarsi per la difficoltà di sbrigare certe pratiche burocratiche, mi sono offerta di aiutarla. Telefonicamente, sono riuscita a sistemare tutto. Ma c’erano altre persone che potevano avere la stessa necessità.

Dopo un giro di telefonate fra le mie conoscenze, ho scoperto bisogni di tutti i tipi, a cominciare da quelli basilari per vivere. In breve, coinvolgendo le amiche più giovani, ho avviato quasi un piccolo centro di consulenza e le nostre giornate si sono riempite di gesti d’amore.

Nonostante le inevitabili difficoltà, il dramma di questa emergenza ci ha aiutate a sviluppare una solidarietà che prima non esisteva

(Tratto da Il Vangelo del giorno, Città Nuova, anno VII, n. 3, maggio-giugno 2021)

 




Ho trovato un padre ed una madre

Stamattina mi sono recato a Messa in un paese a 5 km da casa mia. Arrivato in chiesa vedo che c’è spazio in un banco in cui è presente un ragazzo di colore. Mi metto in quel banco.In paese è attivo un CAS, centro di accoglienza straordinaria per migranti.

Al segno della pace chiedo al ragazzo come si chiami e da dove arrivi: A. del Cameroun. Si esprime in francese. Ha un aspetto serio e dolce allo stesso tempo. Alla comunione sento che ho Gesù in cuore e accanto. A fine Messa potrei augurargli semplicemente buona domenica. Ma qualcosa mi dice di parlargli.

E’ giunto in Italia da un mese, è andato via dalla guerra in cui sono morti suo padre e sua madre. Prima di partire ha portato le due sorelle e il fratello da una zia e poi è partito a piedi.. ha passato un anno in Tunisia, poi è arrivato in barca… nello scendere gli è caduto in acqua il cellulare e così ne è sprovvisto. Aspetta di ricevere dal CAS la somma che gli permetta di acquistarne uno nuovo, di costo modesto, che ha già visto.

Prendo il portafogli e gli do quanto ho. Ma non basterebbe. Mi viene in mente che Piera (la “mamma” di tanti di questi ragazzi) è a casa. La chiamo, la raggiungiamo. Lei gli fa festa. Poi gli dà quanto gli manca e di più. Domani A. andrà ad acquistare il cellulare. E’ un ragazzo in gamba, faceva il falegname e intanto studiava economia all’università.

Mentre parliamo con mamma Piera arrivano a trovarla due altri ragazzi di colore, dei tanti che sono stati “adottati” da lei da quando erano nel CAS, diversi anni fa. Arrivano in auto, perché nel frattempo hanno terminato gli anni di permanenza nel CAS, e, con il loro impegno e il nostro aiuto, hanno trovato il lavoro, una casa, preso la patente, ricevuto un’auto… qualcuno ora sta mettendo su famiglia.

Con A. salutiamo i due. Sono del Mali, mussulmani, e siamo tutti ugualmente fratelli… Piera dà ad A. alcune cartine che lo aiutino ad un primo approccio al territorio in cui si trova, e gli dà appuntamento per i giorni seguenti per aiutarlo per la lingua italiana. Salutiamo e ripartiamo.

Fermo l’auto poco oltre, in un posto tranquillo. Siamo entrambi commossi. “E’ il Signore che mi ha dato questo” mi dice A., “ho trovato un padre e una madre”. Poi piange di gioia e commozione. Tengo stretta la sua mano, in silenzio. Quando ripartiamo ringraziamo Dio insieme e ci assicuriamo di pregare l’uno per l’altro.

Nel pomeriggio a casa ho necessità di guardare il mio conto bancario: inaspettatamente vedo che mi è arrivata da un amico una somma, superiore a quanto avevo donato io. La causale dice: “Aiuto accoglienza migranti”.

S.O.




Oltre al credere anche il sentire

Riceviamo da Giovanni, che ha lasciato questo messaggio nello spazio del nostro sito riservato alle esperienze sulla Parola di Vita,e volentieri condividiamo con tutti.

In tanti momenti della giornata mi chiedo che ci sto a fare, perchè esisto, chi me lo fa fare a a vivere o perchè essere positivo… La risposta mi viene da quella voce che mi penetra, avverto, sento e mi muove dentro. Mi dice che se esisto c’è un perché e devo esserne certo. Fatto sta che ogni giorno ho davanti un immenso territorio da scoprire e che tutto può dipendere da me, che quindi sono unico, l’unico che può intercettare questa realtà misteriosa finché non ci metto su mani. Sarò allora prezioso e indispensabile, mi domando.

Rassicurato della mia grandezza, come di quella di ognuno, avverto la forza per agire e reagire e che mi fa prendere possesso delle mie energie per intervenire su quanto mi si offre, su quanto la vita mi offre, a cominciare da quello che mia moglie si attende, il mio ingegno, il mio lavoro, il mio impegno, tutto ciò a cui sono chiamato e che si para innanzi…

A volte però sono io ad andarmi a cercare o a inventare il da farsi, quello che poi mi travolge con le sue urgenze e i nuovi progetti. Non sono allora un nulla, un niente, come qualcuno vuole farmi credere, ma sono un grumo di volontà e di risorse da sprigionare nel mondo dell’esistere. Poi però riscontro il limite che esiste nel mio operato… e viene da scoraggiarmi. Nel frattempo sento quella voce che mi rassicura e mi accompagna per farmi scoprire chi io sia, mentre mi dà la forza di mettermi ancora e di nuovo alla prova nella realtà, nella mia vita.

Allora contemplo, sento la mano, scorgo un volto di Qualcuno che mi fa grande e a cui familiarmente potrei dare un nome. Voce che continua a chiedermi cosa e chi me lo faccia fare. Insomma, perché? E l’unica risposta che sento è quella di ‘Amore’, che mi attraversa e che mi fa trattare le cose con amore. Amore di chi? Penso che se mi ama, vuol dire che mi sta pure aspettando. E il successivo dubbio viene superato da quella voce che mi si rivolge ancora per dirmi che sono importante e che tutto può dipendere dalla mia iniziativa.

Giovanni




La carità che ci unisce

Con il signor Walid, mussulmano, il rapporto è molto buono già da diversi anni. Giorni fa l’ho visto arrivare in parrocchia: desiderava lasciare un contributo in denaro per i bisogni della comunità e in quell’occasione mi ha chiesto di ricambiare il dono andando a cena a casa sua. Ho accettato con gioia.

Una cena semplice, quella offertami, in una casa piuttosto ricca. Ho conosciuto la moglie italiana e i quattro figli, che il papà vorrebbe fossero educati secondo la cultura del nostro Paese. Ho avuto modo, senza averlo neppure previsto, di raccontare qualcosa della mia vita, del distacco dalle ricchezze e specialmente l’esperienza della comunione dei beni che cerco di portare avanti insieme ad altri cristiani.

Ad un certo punto l’ho sentito commentare: «Dio è con voi». Al momento di salutarci, accompagnandomi al cancello, ha aggiunto: «Se conosce qualche famiglia che si trova in difficoltà, me lo dica. Anch’io posso impegnarmi a versare un contributo mensile»

(Tratto da Il Vangelo del giorno, Città Nuova, anno VIII, n. 1, gennaio-febbraio 2022)

 




Un’idea di capodanno. Diari di una vita straordinaria

Giovani di varie nazioni festeggiano insieme a Planina

Sì, forse il titolo – cha parafrasa un celebre libro di Tiziano Terzani – è un po’ ambizioso … ma ci sta! Ecco perchè.

Tutto nasce a Montet, in Svizzera durante la scorsa estate. Un gruppo di giovani: tante lingue, tante culture e … tante idee diverse. Il vivere insieme e il comune impegno a lasciarsi sfidare dal carisma dell’unità,  generano una nuova consapevolezza anche sulle situazioni che ognuno vive nella propria città e nazione.  Questo rende possibile anche dare un’identità ed associare volti reali ed amici  a tanti altri Paesi più lontani come territorio o contesto. In un epoca di rifugio nelle nostre rispettive comfort zone e nazionalismi è un’esperienza forse piccola ma straordinaria.

I giovani del Friuli Venezia Giulia  ci raccontano che “… in quei giorni a Montet abbiamo deciso di farci una promessa:  generare noi stessi occasioni ed esperienze che ci permettessero di continuare a creare ponti tra le nostre terre, a cominciare dalle più vicine. Sarebbe stato davvero un peccato infatti, dopo esserci conosciuti, far morire questi rapporti appena nati ma così vivi.”

Ed in una serata insieme di fine soggiorno nasce un una prima iniziativa, quella per il Capodanno: “…  è come se quella birra fresca attorno ad un tavolo non avesse solo rinfrescato il nostro stomaco ma molto di più. Si parlava di come fosse strano, per esempio, che le nostre comunità e quelle di Slovenia e Croazia avessero così pochi rapporti tra loro, nonostante la vicinanza e qualche tratto di storia comune. Era come se non ci si salutasse più con i vicini di casa perché troppo impegnati a badare al nostro cortile. “

Ecco quindi, che si è formata  la prima equipe per l’organizzazione di alcuni giorni insieme a fine dicembre al Centro Mariapoli di Planina in Slovenia, non lontano dal confine italiano.

La proposta poi ha cominciato a circolare in giro per l’Italia e vari altri paesi dell’Est Europa. In breve  da una ventina di interessati, si è arrivati presto a circa sessanta partecipanti di varie regioni italiane, Croazia, Slovenia, Bulgaria.

“Una semplice festa, quindi, “- continuano a raccontare – “non bastava più: ci rendevamo conto che tutte queste persone, così diverse e così desiderose di costruire ‘ponti’,  avrebbero dovuto tornare a casa con qualcosa di più che un normale momento tra amici.”

Ma come? Si inizia a lavorarci su.

 “  Abbiamo pensato – ” ci dicono allora con entusiasmo – “ di cogliere l’occasione per sviluppare temi come  l’OKness  e la gestione dei conflitti con momenti di dialogo tenuti da  esperti: Michela Acler e Francesca Matcovich che ci hanno aiutato a fare chiarezza su tanti aspetti della nostra vita sociale, della relazione con noi stessi e con gli altri. Poi l’idea di gita nella bella Lubiana. A conclusione di tutto una messa interculturale in cinque lingue per la pace universale.

Giorni davvero “memorabili” affermano con entusiasmo i ragazzi organizzatori.

“ Il 1 gennaio 2023, al momento inevitabile di lasciare Planina lo abbiamo fatto con un sincerissimo  arrivederci”.

Nei loro occhi leggiamo che la promessa sarà mantenuta di sicuro. Anzi, ampliata.

A cura di Andreina Altoè




La cresima

La mia fidanzata, Giorgia, vuole sposarsi in chiesa. È necessario il certificato della cresima che non ho e ci vuole una preparazione. All’inizio sembra tutto semplice, ma quando mi trovo con ragazzi molto più giovani di me ad ascoltare le lezioni di catechismo, mi sembra troppo. Vorrei mandare tutto in aria.

Giorgia non cambia idea, lei è convinta del sacramento del matrimonio. Il nostro rap- porto entra in un tunnel. Praticamente rimandiamo la data del matrimonio. Sono mesi di travaglio e di domande. Sono formato a vedere la Chiesa come istituzione retrograda e ora eccomi qui a elemosinare un certificato.

Quello che mi fa rabbia è che per Giorgia non si tratta di una formalità, ma di un modo di impostare la famiglia. Il nostro rapporto va in fumo. In quei giorni, in un incidente, mia madre rimane paralizzata. Giorgia viene a trovarla tutti i giorni e mia madre trova in lei non solo amicizia, ma un tipo di presenza che l’aiuta ad accogliere il suo stato con serenità. Capisco che Giorgia ha motivi profondi per agire così. Sparisce in me ogni dubbio: costi quel che costi, è lei la donna della mia vita.

(Tratto da Il Vangelo del giorno, Città Nuova, anno V, n.6, novembre-dicembre 2019)




Dal parrucchiere

In attesa del mio turno, una signora si rivolge a me lamentandosi dei politici e della società. Tali sono la sua rabbia e la sua delusione che è tutta congestionata in volto. La ascolto pazientemente. Appena trovo uno spazio per parlare le faccio notare che non dappertutto è così, dato che vivo in un Paese estero: esistono altri modi di guardare il mondo.

Lei replica che ha lavorato in una compagnia aerea ed ha girato il mondo, ma ribadisce: la società di oggi è malata dappertutto. Mentre la parrucchiera lavora con il colore dei capelli, la signora accenna ad altro e finiamo col parlare di fede, di questa forza che ci aiuta a vedere le cose da altra prospettiva…

Le racconto le mie scelte, aggiungendo che il positivo devo attenderlo da me, non dagli altri, non dai politici. Una volta “rinnovate” tutte e due nei capelli, ci salutiamo e facciamo per uscire. A questo punto la signora si ferma: «Oggi è stato Dio a farmi uscire, dovevo proprio incontrarla. La pace che mi ha comunicato è un dono di lui!».

(Tratto da Il Vangelo del giorno, Città Nuova, anno V, n.6, novembre-dicembre 2019)




Sniffava colla

Da tempo, all’insaputa dei genitori, il figlio di una mia collega aveva cominciato a sniffare colle e solventi. In casa avevano qualche volta avvertito forti odori di colla, ma siccome lui aveva l’hobby del modellismo, non ci avevano fatto caso.

La scoperta è avvenuta quando ormai s’era evidenziata la gravità dello stato dei polmoni. La radice di quello sbandamento? Il ragazzo, figlio unico di genitori in carriera che avevano trascurato di testimoniargli dei valori, cercava di compensare in tal modo le carenze e gli insuccessi raccolti a scuola.

Mi raccontava la collega: «Dopo un periodo in sanatorio, è tornato casa. A cambiare non era stato soltanto lui, ma soprattutto noi. Quei mesi, infatti, sono stati un tremendo esame di coscienza e abbiamo dovuto ammettere che al primo posto per noi c’era stato il guadagno, il successo… tutto meno l’equilibrio di nostro figlio». Nella disgrazia, costatavamo il positivo di un nuovo inizio per l’intera famiglia

(Tratto da Il Vangelo del giorno, Città Nuova, anno VII, n. 3, maggio-giugno 2021)

 




Dimenticare le chiavi

Pedalavo in bici quando mi sono accorto d’aver portato con me le chiavi di casa che di solito lasciamo in un posto del giardino. Mia moglie era al lavoro e la bambina non avrebbe potuto entrare dopo scuola. Non potevo far altro che riportare le chiavi.

Sulla via del ritorno, accasciato su una panchina, ho riconosciuto un mio amico. Era ubriaco e si lamentava per una storta al piede, che era molto gonfio. L’ho preso su e portato dai genitori, per fortuna non lontani. Essendo anziani e non in grado di accom- pagnare il figlio al pronto soccorso, me ne sono occupato io.

Prima però ho fatto un salto a casa, per rimettere le chiavi a posto. Mentre in ospedale attendevamo il nostro turno, l’amico, che intanto aveva ripreso lucidità, mi ha detto della moglie e dei figli che non lo accettavano.

Da quel giorno provvedere all’amico e ai suoi genitori è diventato per me un impegno fisso. Ho contattato anche i familiari di lui: ora sembrano più disposti a riconciliarsi. Dimenticare le chiavi era stato provvidenziale

(Tratto da Il Vangelo del giorno, Città Nuova, anno VII, n. 1, gennaio-febbraio 2021)




Come fosse l’ultima volta

Alcuni amici mi avevano parlato di un loro conoscente, sposato e padre di due bambini, al quale un tumore lasciava pochi mesi di vita. Non molto tempo dopo, assieme a quegli amici, venni invitato a cena proprio da questa famiglia.

La prospettiva di incontrare un morituro mi riportò alla mente qualcosa che mi aveva colpito in un libro di spiritualità, e cioè che bisognerebbe amare il prossimo come faremmo se sapessimo di incontrarlo per l’ultima volta nella vita.

Eravamo una decina di invitati, fra i quali c’era appunto una coppia con due bambini. Senz’altro era lui la persona col tumore. Ne fui impressionato: così giovane e destinato a morire! Misi tutta l’attenzione nel servirlo, ascoltarlo, come fosse l’ultima occasione per farlo.

Conclusa la serata, quella famigliola partì; anch’io, congedandomi, ringraziai gli amici di avermi fatto conoscere quel papà che avevo identificato nel malato. E loro: «Ma no, non è lui che ha un tumore, è un altro!». Presi quella come una lezione da parte di Dio per impegnarmi ad amare chiunque come fosse l’ultima volta.

(Tratto da Il Vangelo del giorno, Città Nuova, anno VI, n.6, novembre-dicembre 2020)

 




Il tempo ritrovato

Preso dal lavoro e dal successo economico, avevo superato bene l’abbandono di mia moglie che aveva trovato qualcuno, come diceva lei, «più presente di me». I figli, ormai fuori casa, davano segni di vita se volevano. La pandemia mi ha messo a terra.

Lavoro scarso, operai a casa… Da solo non ero abituato a stare. Il tempo mi sembrava non passasse mai. Un giorno mi ha chiamato un vecchio amico. Gli ho detto del guaio del lavoro, della solitudine, ma soprattutto del mio problema di non saper vivere il tempo. Lui, dopo avermi ascoltato, ha risposto semplicemente che nel tempo “ritrovato” stava cercando di riallacciare quei fili che per vari motivi si erano tagliati. E io facevo parte del suo elenco.

Ci è nata allora l’idea di contattare i vecchi compagni di scuola. Con i mezzi di comunicazione a disposizione, abbiamo organizzato vere serate d’incontro. Dopo le prime informazioni, siamo passati a temi più esistenziali. Molti hanno ammesso che la pandemia, paradossalmente, era risultata una fortuna: ci aveva mostrato il valore di ciò che avevamo trascurato.

(Tratto da Il Vangelo del giorno, Città Nuova, anno VI, n.6, novembre-dicembre 2020)

 




Guerriero

Io sono un guerriero
Veglio quando è notte
Ti difenderò da incubi e tristezze
Ti riparerò da inganni e maldicenze
E ti abbraccerò per darti forza sempre
Ti darò certezze contro le paure
Per vedere il mondo oltre quelle alture
Non temere nulla io sarò al tuo fianco
Con il mio mantello asciugherò il tuo pianto

Marco Mengoni

Sono entrata nella tua stanza in punta di piedi, spesso sei assopito e non vorrei disturbarti. Al mio saluto sussurrato rispondi come sempre, aprendo un occhio solo. Quando mi riconosci, il tuo viso magro si apre in un sorriso e tendi la tua mano scarna. La prendo come sempre tra le mie, e non importa se non ho ancora indossati i guanti di protezione; ho bisogno io del tuo calore.

Sei arrivato, reduce da un evento tragico, e pensavo che avremmo avuto poco tempo da trascorrere insieme. Ieri mi dici: “Dottoressa, qui voi avete fatto un miracolo; sono arrivato pieno di dolori, non ce la facevo più e adesso sto bene, pensi che con la fisioterapista mi sposto con il deambulatore per il corridoio, mi reggo sulle mie gambe! Spero di tornare a casa presto”.

Questa è la bellezza delle cure palliative, dare qualità alla vita che resta; qualità che vuol dire libertà dal dolore e da altri sintomi fisici, comprensione e sollievo nelle dimensioni psicologica, sociale e spirituale della persona, coinvolgendo e supportando la famiglia.

Questo miracolo lo può compiere un team di professionisti, protagonisti ognuno per la parte che gli compete, medico, infermiere, operatore sociosanitario, psicologo, fisioterapista, assistente sociale, educatore senza dimenticare le altre figure professionali, non coinvolte direttamente nell’assistenza alla persona, ma importanti per rendere funzionale, pulito e sicuro l’ambiente, per portarti indumenti freschi di bucato o un cibo adatto alle tue esigenze.

Una rete con nodi saldi pronta a sostenere se uno dei punti si allenta, dove non esiste la parola competizione perché sappiamo che nessuno da solo ce la fa. Tu, con le tue parole, hai compiuto questo miracolo in me, rinnovando la speranza che il mio lavoro possa contribuire a tutto ciò. Sei anche tu un nodo della nostra rete, il più importante.

Paola Garzi

 




Come uscire dall’oppressione

In poltrona, inerte, ero così giù di morale che non rispondevo alle chiamate. Intanto i coinquilini del piano di sotto, come al solito, stavano litigando. Altre volte avevo cambiato stanza per non sentirli. Ma stavolta mi sentii spinta a fare qualcosa e ricordando che in quel- la famiglia c’era stato un anniversario, presi una bottiglia di vino ricevuta in regalo e in vestaglia com’ero andai a bussare da loro.

Sorpresa, momenti di incertezza, poi mi invitarono a prendere un caffè. Non ricordo cosa ci dicemmo, ma nella gran voglia di parlare che m’era venuta arrivammo alle risate. Di nuovo a casa, mi sentivo diversa: dov’era la tristezza? Mi sentivo “abitata” dal bene

(Tratto da Il Vangelo del giorno, Città Nuova, anno VII, n. 6, novembre-dicembre 2021)

 




Luce e lievito per trasfigurare la vita

Il Sinodo delle Chiese diocesane di Cuneo e di Fossano.

L’esperienza di un Sinodo diocesano nel Nord Italia che ha affrontato le sfide legate alla pandemia e al cambiamento d’epoca, portato avanti il processo d’unificazione di diocesi unite finora solo nella persona del vescovo e riorientato la pastorale perché sia testimonianza incisiva del Vangelo nelle circostanze odierne.

Un duplice sguardo

Due sono gli “sguardi” che hanno portato ad ideare ed orientare il cammino sinodale unitario delle Chiese diocesane di Cuneo e di Fossano, iniziato il 28 maggio 2021 nella Cattedrale di Cuneo e concluso il 24 giugno 2022 nella Cattedrale di Fossano con la consegna del Libro sinodale.

Uno sguardo più generale derivante dalla situazione di cambiamento epocale che si sta vivendo a livello di Chiesa e di umanità, accentuata dall’emergenza prodotta dalla pandemia. «Vediamo attorno a noi – è scritto nell’introduzione del Libro sinodale – frammentazione, multietnicità, crescente isolamento, apatia religiosa, relazioni precarie, grande mobilità, stordimento per dati ed informazioni, fragilità psicologiche crescenti, paura del futuro, progettazioni limitate … in una parola, grande fragilità». Al tempo stesso la globalizzazione presenta aspetti che sono da interpretare con un senso aperto a nuove speranze quali sono le «esigenze di rapporti segnati da una nuova fraternità a tutti i livelli, sentita come premessa indispensabile per una pace planetaria».

Il secondo sguardo più concreto è l’avvio più deciso del processo di unificazione delle due diocesi, che dal 1999 camminano sotto la guida del medesimo vescovo, ma hanno mantenuto finora strutture distinte. Negli ultimi anni l’idea di diventare un’unica realtà ecclesiale ha avuto reazioni differenti, non sempre concordanti. Si può dire che il primo segno distintivo del Sinodo sia l’aspetto unitario del cammino compiuto, sia nella sua ideazione che, poi, nelle sue conclusioni.

Far emergere questioni basilari

La proposta del Sinodo era maturata all’i- nizio del 2020, con l’idea di non farne un cammino onnicomprensivo come i precedenti Sinodi diocesani, ma di far emergere alcune questioni basilari. La dilatazione della pandemia, a marzo del 2020, pone in crisi tale proposta: è opportuno affrontare un processo di questo tipo, quando le persone, le famiglie e le comunità sembrano sommerse da problemi di tutt’altro tipo? Si è voluto affrontare la sfida dell’“ascolto” proprio nel contesto del ripensamento della fede e della realtà ecclesiale provocato dal periodo tormentato che stiamo vivendo.

Di qui sono scaturite quattro schede di consultazione e di confronto: I cambiamenti, La fede, La parrocchia, I preti, a cui se n’è aggiunta una quinta in fase di Assemblee sinodali: Il ruolo dei laici. Nel frattempo le varie comunità parrocchiali, le Associazioni e i Movimenti sono stati coinvolti per la scelta dei delegati alle Assemblee diocesane: 120 persone, sacerdoti, religiosi e laici hanno dato voce alle varie realtà delle due diocesi, che complessivamente assommano a circa 150 mila abitanti.

Un cammino inclusivo

Il cammino è stato il più inclusivo possibile, procedendo come a cerchi concentrici: dalla Segreteria, che ha formulato le domande-guida delle schede, alle comunità; dalle comunità alla Segreteria per la sintesi dei contributi da presentare ai delegati nelle Assemblee. Dieci sono state le sessioni sinodali, per la metà in collegamento Zoom, per la metà in presenza. Ogni Assemblea ha proceduto a riformulare, in un confronto aperto e vivace, ma mai eccessivamente dialettico, le proposizioni scaturite dalla consultazione.

Non possiamo affermare che la partecipazione e la condivisione della “base” sia stata corale, proprio per i disagi provocati dall’emergenza pandemica, ma sono state offerte proposte e suggestioni rimarchevoli di attenzione. Ne è emersa tutta la fatica del momento, ma pure la speranza della “forza” di un messaggio, quello evangelico, capace di ridare senso alle scelte da operare a livello personale e comunitario. «Siamo chiamati ad offrire una testimonianza nuova e gioiosa del Vangelo – è scritto nella prima delle proposizioni –. Esso ha la capacità di sostenere e illuminare le coscienze delle persone nella ricerca della verità e della giustizia, di essere luce e lievito per trasfigurare la vita, anche nel contesto della società e della cultura contemporanea, diversa da quella del passato»

Conversione della mente e del modo di organizzarci

È proprio questa convinzione rinnovata che offre il coraggio di affrontare cambiamenti e riforme anche importanti: «Vogliamo promuovere il percorso di riforma della Chiesa locale».

In effetti, il frutto più evidente che ne è scaturito è la rinnovata decisione di procedere verso l’unificazione attesa da anni: in attesa dell’unificazione giuridica, di spettanza della Sede apostolica, si è fatto un passo decisivo nell’unificazione pastorale. Ora le due diocesi non avranno più soltanto l’unico vescovo, ma una curia unificata negli uffici pastorali e giuridici, un unico vicario generale e un unico vicario per la pastorale.

La «conversione della mente e del modo di organizzarci» che interessa gli organismi diocesani investe così anche gli altri ambiti.

Le sei Costituzioni, che rappresentano la parte centrale del Libro sinodale, danno concretezza agli orientamenti emersi nelle proposizioni formulate nel corso delle Assemblee diocesane.

Oltre gli organismi diocesani, le Costituzioni propongono linee vitali per la formazione, le parrocchie e unità pastorali, la presenza e testimonianza dei laici, la presenza e testimonianza dei sacerdoti e dei diaconi, i passi prioritari da compiere.

Il tutto è affidato ora non soltanto ai decreti attuativi, ma all’attenzione e corresponsabilità dei consigli diocesani e parrocchiali, alla nuova presa di coscienza di tutti i battezzati, laici, consacrati, ministri ordinati, che come christifideles inseriti nel Popolo di Dio riscoprono il loro compito di “messaggeri” dell’unico messaggio capace di ridonare vita all’umanità ferita: «Aiutiamoci ad essere Chiesa che ascolta, che dialoga con tutti, che non si chiude nelle proprie strutture, che non ha paura della propria identità e non si nasconde, che ama la vita e trasmette speranza per il futuro, che si caratterizza per l’accoglienza senza pregiudizi» (dagli Orientamenti).

Tonino Gandolfo

Tratto dalla rivista Ekklesia 2022/4

 




La vittoria più grande

Con le restrizioni della pandemia che mi avevano costretto a lavorare a casa, fumare per me era diventato un problema. Per amore di mia moglie, convalescente dopo un intervento chirurgico, ho deciso di smettere.

Non è stato facile. Ma ogni giorno mi è sembrato di scoprire in me possibilità non ancora sperimentate. Penso che la vittoria più grande sia stata quando nostra figlia minore ci ha confidato che con le compagne di classe era entrata in un giro di droga: «Vedendo l’impegno messo da papà a vincere la dipendenza dal fumo, mi sono impegnata anche io a non usare certe sostanze».

Questa confessione mi ha messo in crisi: quante volte avrei potuto fare dei passi che non ho fatto? Da un colloquio con la preside della scuola frequentata da nostra figlia, ho saputo che il problema era più esteso di quanto sembrasse. Invitato da lei a incontrare altri genitori con problemi simili, ho accettato. Con loro non si è parlato tanto di droga quanto dell’esempio che possiamo dare ai nostri figli. È nata tra tutti un’amicizia che ci sostiene e che ci ha aperto gli occhi.

(Tratto da Il Vangelo del giorno, Città Nuova, anno VIII, n. 3, maggio-giugno 2022)

 




Come Simeone

Ora lascia, o Signore, che il tuo servo
vada in pace secondo la tua parola;
perché i miei occhi han visto la tua salvezza
preparata da te davanti a tutti i popoli,
luce per illuminare le genti
e gloria del tuo popolo Israele.

CANTICO di SIMEONE
Lc 2,29-32

E sono di nuovo al turno di notte.

Tra i pazienti al piano terra ci sei anche tu, anziano, fragile, che tendi ad agitarsi, specie quando arriva il buio e i tuoi cari ti lasciano. Ti è già successo di cadere e per questo hai un’assistente notturna.

Passo nel corridoio e ti sento gridare. Lei si affaccia nel corridoio e mi chiama dicendomi: dottoressa venga, ma stia attenta perché è aggressivo, non si avvicini troppo! Io invece mi avvicino. Osservo il tuo respiro affannoso, i tuoi occhi febbricitanti, spaventati.

Ad un certo punto mi vedi: ti calmi, il respiro rallenta un po’; ti prendo la mano e me la porto al viso, come se tu volessi darmi una carezza. Sul tavolino i tuoi ti hanno lasciato un piccolo presepio, lo accendiamo e te lo diamo tra le mani. I colori si diffondono nella stanza, ti illuminano il viso e i tuoi occhi splendenti contemplano una Luce che si è fatta Bambino.

Al mattino non ci sei più ma questo attimo è fissato nell’Eternità.

Paola Garzi




L’unico che non tradisce

Incredibilmente, un amico di vecchia data aveva su di me e sulla mia famiglia espresso un giudizio causa di incomprensioni nel giro degli altri amici. Non mi davo pace, non ci dormivo la notte. Un giorno, durante la messa, venne letto il versetto di un salmo: «Sei tu, Signore, l’unico mio bene».

Per giorni ci pensai e lentamente si fece strada in me una fede nuova in Dio, l’unico che non tradisce. Quella frase, che aveva avuto su di me l’effetto di un ritiro spirituale, mi aiuta in tanti situazioni. Si presenta qualche contrarietà? «Sei tu, Signore, l’unico mio bene». Vorrei che questa scoperta passasse ai miei figli come legge della vita, come strada di libertà.

(Tratto da Il Vangelo del giorno, Città Nuova, anno VII, n. 6, novembre-dicembre 2021)

 




Come bambini

Come ogni mattina, sono uscito di casa per passare dalla mamma a vedere come stava e a fare colazione con lei. Mi ferma un ragazzo che mi chiede una sigaretta. Gliela do, ma poi lui, un po’ imbarazzato, mi chiede se posso offrirgli la colazione: aveva dovuto pagare il posto dove aveva dormito e non gli bastavano i soldi.

E’ stato spontaneo per me andare subito al bar e fare colazione con lui. Questa semplice esperienza mi ha dato gioia, perché ho potuto farmi “piccolo con i piccoli”.




Come i bambini

Faccio il fotografo di professione e quando qualcuno mi chiede se mi sento realizzato in questo lavoro, rivedo tanti momenti, tanti “quadri” di gente che cerca di essere fotografata dal lato più fotogenico, di dirigenti che al momento dello scatto frenano il respiro e ritirano la pancia.

È come sottoporsi a una specie di esame in cui si punta ad essere o apparire migliori, diversi da quello che si è. Soltanto nei bambini non trovo queste reazioni. Un giorno in chiesa si leggeva un discorso di Gesù sulla necessità di diventare come i bambini: l’ho capito con la mia esperienza di fotografo. Gesù chiede di essere quelli che siamo, come i bambini.

(Tratto da Il Vangelo del giorno, Città Nuova, anno VI, n.1, gennaio-febbraio 2020)




Il valore della cura

“Una società si può dire che è umana nella misura in cui i suoi membri si confermano tra di loro” (Watzlawich,1971).

“L’occhio è una regione di quasi calma situata al centro di un ciclone tropicale. È circondato dall’eyewall, un anello di temporali torreggianti dove avvengono i fenomeni più forti”

Mettiti anche tu con me nell’occhio, lì dove è quiete. Mettiti con me nella tregua che dà vivere un momento alla volta. Attorno ci possono essere agitazioni di ogni sorta e se ci muoviamo da quel punto fermo rischiamo di esserne travolti. Il ritmo delle nostre giornate di lavoro, qualunque sia la nostra qualifica professionale, è spesso incalzante, sfidante. Non entro nei dettagli perché per ognuno è diverso; per me è confortante pensare che dopo il vortice posso trovare un punto fermo: lì dove ci incontriamo.

E’ la relazione che ci salva dall’alienazione.

Così questa mattina quando mi chiedi un attimo di parlare. Ti ascolto ma ho già la mia risposta in testa. Occorre fermarsi. Lo faccio e mi accorgo delle lacrime che vogliono uscire a dispetto dei tuoi tentativi di frenarle: capisco cosa voglia dire mettersi nelle scarpe di un altro. Farò di tutto perché tu possa mantenere il tuo entusiasmo.

Sei una persona discreta e usi spesso un tono di voce più basso del normale, parli quasi scusandoti che devi per forza chiedermi qualcosa. Per sentirti bene devo fermarmi; non meriti una risposta frettolosa. La voce è sottile ma gli occhi sono luminosi.

A volte abbiamo necessità di sentirci al telefono e la prima cosa che mi dici è: “Dottoressa tutto bene, nessuna urgenza”. Sì lo sai che se chiami tu mi preoccupo subito, ma questa tua premura è preziosa. Possiamo confrontarci liberamente, sempre.

Sei arrivata da poco tra noi, il tuo stile è diverso dal mio. Penso di aiutarti con suggerimenti protettivi ma così ti spingo verso l’anello esterno ed inevitabilmente ci scontriamo. Ci rimango male, ma intanto le cose da fare non aspettano. Mi dispiace che sia andata così. Quando non ci penso più ti vedo tornare per un giorno. Un giorno solo ma sufficiente. Quel saluto: grazie per tutto, mi mantiene ancora lì dove tutto è quiete.

Paola Garzi