Al primo posto tutto l’amore possibile

Sento il desiderio di offrire la mia testimonianza alle persone che hanno un malato di alzheimer e non sanno cosa fare.

Dopo la morte del papà tutti dicevano che mia mamma aveva l’alzheimer: non riconosceva più neanche me, sua figlia.

Dapprima c’è stata la disperazione. Essendo iscritta all’associazione familiari alzheimer vedevo molti casi simili al mio, persone agitate come la mia mamma.

Poi mi sono affidata al Signore e con l’aiuto della badante che vive con noi abbiamo cominciato a portarla tutti i giorni alla Messa; le facevo sempre fare la Comunione.

Pian piano ha cominciato a riprendersi, poi a ricordare le preghiere della Messa, a riconoscermi.  La sua coscienza si è completamente svegliata, ed ora è lei che aiuta me. Credo sia stato il Signore ad ispirarmi nell’affidarmi a Lui.

Certo ora i medici affermano che non era alzheimer, perché questa malattia non torna indietro, ma forse una semplice demenza temporanea. Tuttavia, anche il medico ha ammesso che in questa guarigione v’è qualcosa di imponderabile. Personalmente metto al primo posto il tanto amore dato ed anche l’affidarsi all’Eucaristia.




Anche oggi voglio fidarmi e dire il mio sì

Dopo che ci siamo sposati in Chiesa davanti a Dio con il fermo proposito di fare una bella famiglia ed abbiamo deciso insieme di accogliere i figli che Lui avrebbe voluto inviarci (ne sono nati tre: sani, intelligenti e volenterosi) ora in casa qualcosa non funziona più.

Mio marito afferma che non che sente più d’amarmi. Io stessa m’accorgo di non valere più nulla davanti ai suoi occhi. Sono mesi di lacrime e preghiere senza fine. Mi chiedo: che cosa ho sbagliato? Che cosa non ho fatto ed invece dovevo fare?

Fino ad ora ho trovato solo questa risposta: offrire a Dio la mia situazione, sapendo che Lui solo sa il perché. Da parte mia voglio continuare ad amare in casa il più possibile, voglio dare senza misura. Se il Signore permette questa prova, voglio fidarmi e dire anche oggi il mio sì.




Sono anni che continuiamo a chiedere per nostro figlio

Sono già trascorsi undici anni da quando mio marito ed io, aiutati dalle parole e dall’esempio di una coppia di amici, abbiamo iniziato ad interrogarci sulla fede. Prima di quel periodo solo battesimo, Comunione e Cresima per tradizione e nulla più. Infatti, le nostre famiglie d’origine, belle, unite e con profondi principi di onestà, non hanno alcuna formazione religiosa. Così, quando abbiamo pensato al matrimonio, ci è sembrato coerente sposarci in comune e non battezzare nostro figlio.

Poi, appunto undici anni or sono, quando sono nate tante domande, abbiamo chiesto un dialogo con un sacerdote e si sono riaperte pian piano le porte della Chiesa che pensavamo chiuse per noi.

La certezza dell’amore di Dio per ogni persona, anche per noi, è stata una scoperta gioiosissima che illuminato la nostra esistenza personale, i rapporti in famiglia e con i parenti; poi il lavoro e tutto quanto vivevamo. La nostra vita si è trasformata.

Ci siamo scelti una seconda volta, ciascuno vedendo nell’altro un dono di Dio. Al matrimonio in Chiesa erano presenti tutti i nostri cari, genitori e fratelli, in verità un poco stupiti per le nostre nuove convinzioni ma anche per i nostri nuovi atteggiamenti.

Abbiamo un unico desiderio: che anche nostro figlio scopra di essere “figlio di Dio” e amato da Lui e Lo incontri nella fede. Lo incoraggiamo con rispetto, ma non possiamo nulla di più. Ogni tanto dice che questo nostro amore non è solo umano e ci ringrazia; ma tutto si ferma qui. Da anni, quotidianamente, chiediamo per lui a Gesù il dono della fede. Chiediamo senza stancarci.

Ed è appena da qualche mese che abbiamo saputo che sta frequentando – lui dice ‘per curiosità’ – un incontro di dialogo sul Vangelo e che ritorna a casa affascinato. Noi continuiamo a credere all’Amore di Dio per nostro figlio e a chiedere per lui la fede, il dono più grande della vita.




Un atto d’amore in più

Mi adopero in ogni modo per facilitare i rapporti fra le persone che abitano il mio stesso popoloso quartiere. Qualche telefonata, una sosta presso una persona sola e malata, far circolare le notizie più positive che riesco a trovare. In questo impegno ho potuto coinvolgere qualche altra amica e cresce, a parer mio, un clima di stima e fiducia.

Tutto tranquillo, fino a quando una mia amica apostrofata aspramente da un condomino che afferma di sentirsi infastidito dalle persone non residenti che vede circolare nel palazzo dove abita.

Quando apprendo la cosa mi sento ferita nel mio impegno, mi sembra che non valga la pena occuparsi degli altri. Poi, riprendo serenità convinta che anche qui c’è l’amore di Dio all’opera. Mi ricordo del Vangelo che afferma che anche l’oro (cioè il bene) “deve essere purificato nel crogiolo sette volte” per liberarlo dalle scorie.

Accetto questa situazione come un’occasione opportuna per purificare il mio cuore. Adesso mi sento pronta ad incontrare la persona che è rimasta infastidita e tutto si risolve nel migliore del modi.

Il Signore voleva un atto d’amore in più.




Adesso amo di più i miei alunni

Sono una giovane mamma e sono un’insegnante; il mio temperamento resta riservato, schivo. Credente sì, ma con una fede individuale fino ad un anno fa quando c’è stato l’incontro con la Parrocchia che mi ha sorpreso per l’aria di famiglia che si vive e per la sua capacità di dialogo con tutti. Una domenica alla Messa si parla dello Spirito Santo come di “un maestro interiore”. Sono attratta da quelle parole, inizio ad avvertire in me la sua presenza. Poi ho imparato ad ascoltarlo sempre più spesso anche nelle difficoltà, ed ho trovato sicurezza e gioia.

A scuola è difficile per noi insegnanti dare una valutazione che sia pienamente rispettosa del lavoro fatto dagli alunni come pure della loro persona in crescita.

A volte avviene che qualche collega, che si ritiene più pratico del mestiere, spinga anche noi a orientarci a confermare la valutazione che lui ha scelto.

Se in passato mi lasciavo un poco guidare, ora non è più così. Ho il mio “Consigliere”, lo posso ascoltare sempre in fondo all’anima. Mi aiuta a resistere alle pressioni esterne ed a dare con libertà la mia valutazione, staccata pure dalle critiche degli altri.

Con queste scelte avverto di amare di più Gesù nei miei alunni.




Dopo aver fatto la nostra parte

Sono mesi che in fabbrica non arriva un ordine. Il titolare, rassegnato, licenzia le operaie. Restiamo in cinque con incarichi promozionali e ci stringiamo in un piccolo locale per risparmiare anche sull’affitto del capannone. Fra le licenziate c’è una donna prossima alla pensione: le mancano solo tre anni, in questo momento di crisi impossibile per lei trovare lavoro.  

Non mi sento tranquilla a non fare niente. Chiamo le colleghe e propongo: “Se ciascuna di noi rinuncia ad un decimo dello stipendio ed il titolare versa i contributi, almeno un part time può essere dato alla nostra amica. E’ una porta aperta per mantenere la famiglia e camminare verso la pensione”.

Trovo il consento di tutti ed i sindacati avvallano la nostra decisione. Ci sentiamo sereni, contenti. Adesso anche Dio farà la sua parte, ne sono certa.




Due sorelline

 Agli inizi di novembre ci viene chiesto di accogliere una bambina di 14 mesi. Dopo aver accertato che anche i nostri gli erano contenti ed essere stati convocati dall’assistente sociale, la sera stessa portiamo Veronica a casa. È una vera festa!

Questa bambina ruba i cuori. Da anni non si sentiva da noi il pianto di un bimbo, da anni non si preparava il biberon. Poco dopo veniamo a sapere che Veronica ha una sorellina più grande, di sei anni; data la sua età, non è stata scelta per l’adozione e rischia di rimanere sempre in istituto.

Approfittando del periodo natalizio, chiediamo al giudice di ospitare anche lei. Immaginate la gioia in famiglia quando, alla vigilia di Natale, arriva questa bambina a renderlo il più bello della nostra vita.

Le due sorelline sono inseparabili e per questo saranno adottate insieme: il giudice ha preso questa decisione dopo aver costatato come si trovano bene da noi dopo tre mesi di affidamento.

F. C.- Italia

Fonte: Il Vangelo del giorno, Città Nuova, Dicembre 2016, p.140




Bigliettini d’auguri

Frequento Ingegneria, un ambiente dove è fortissima la selezione. Ognuno pensa per sé e i rapporti che si costruiscono sono fatti solo di argomenti di studio. Forse le amicizie più belle sono con gli studenti stranieri, i meno inseriti.

Tra pochi giorni è Natale; ultime ore di lezione. Un’idea: corro a prendere dei bigliettini d’auguri. Poi li nascondo in mezzo ai quaderni di tutti i compagni di corso.

Durante la lezione uno per volta si girano, mi sorridono. Uno di loro: «Alberto, è il regalo più bello, perché non me lo sarei mai aspettato».

Alberto – Italia

Fonte: Il Vangelo del giorno, Città Nuova, Dicembre 2016, p.124




L’atmosfera della festa

Giornata difficile. In casa ci sono l’albero e il presepe, ma è sparito il senso di gioia che avevamo. Forse è stata colpa mia oppure di nostro figlio… Fatto sta che il disagio è cresciuto, facendoci dire cose che non volevamo.

Poi in mente una frase di Gesù: «Tutto quello che avrete fatto a uno dei più piccoli, l’avete fatto a me». Finito di lavare i piatti, preparo un frullato per mio figlio; più tardi cerco una pomata di cui ha bisogno mio marito.

Forse Natale è anche amore che costa, fatto di piccolissime cose. Così l’atmosfera della festa è tornata.

L. R. – Italia

Fonte: Il Vangelo del giorno, Città Nuova, Dicembre 2016, p.114




Mohamed: “Ci sono cose che non puoi vedere con gli occhi . . . “

La famiglia di Mohamed: amore e coraggio (Italia) 

Riportiamo quanto è stato detto al funerale di Mohamed, un giovane di 19 anni della Costa D’Avorio, morto pochi giorni fa di leucemia. Mohamed era arrivato in Italia nel 2015 su un gommone ed era stato accolto da una famiglia di Pescara.

Sono parole scritte da persone che gli sono state vicino: una storia forte e commovente che ha molto unito la comunità musulmana e cristiana. 

Famiglia Di Biase
Famiglia Di Biase – Foto: incentro.gelocal.it

“Questo momento insieme ci sembra un vero miracolo, uno dei tanti a cui abbiamo assistito accanto a Mohamed.
Fratelli Musulmani e Cristiani che pregano insieme, uniti dalla vita di un ragazzo, uno di quei ragazzi che non hanno voce, venuti coi barconi col solo vestito che indossano.

E’ grazie a questo ragazzo venuto dal nulla se oggi tra persone così diverse per religione, cultura e lingua, si può respirare aria di Paradiso.

Ieri ripensavo alla semplicità dalla quale tutto è cominciato, ad uno sguardo il giorno di Natale dell’anno scorso. Ero andato in ospedale a conoscerlo perché malato, e l’ho visto sfinito sul letto d’ospedale col pranzo lì a fianco non consumato che di lì a poco avrebbero portato via. Aveva fame ma non aveva la forza di alzarsi a mangiare.

Troppo spesso il mio lo sguardo si ferma alla testa che pensa: c’è chi provvede, non ho tempo, non so fare queste cose.
Forse perché lo sguardo è rimasto più a lungo, il tempo necessario affinchè arrivasse al cuore, che mi ha fatto vedere Mohamed con uno sguardo diverso, con occhi nuovi, gli occhi di quella sua mamma che in qualche parte del mondo era in pena per lui. Gli ho semplicemente dato da mangiare come avrebbe fatto lei, e così per i giorni successivi.
Come avrebbe fatto lei venivo al suo ritorno da esami dolorosi perché sentisse che qualcuno lo aspettava, o semplicemente compagnia.

Il cuore di una mamma non vede la nazionalità, la religione, l’educazione o cultura. Ama!
Questo sguardo di mamma, molto simile allo sguardo che Dio ha per noi, non ha permesso che questo ragazzo restasse solo o lontano dall’ospedale che poteva curarlo, e lo ha portato a far parte della nostra famiglia. Questo sguardo ha la forza del contagio e dalla nostra famiglia a don Massimo che ci ha sempre sostenuto, è subito arrivato a tutta la nostra comunità.

E tutti noi con meraviglia abbiamo scoperto che chinandoci verso un povero, abbiamo alzato lo sguardo verso il cielo, facendo gesti dal sapore di eternità che hanno portato un pezzetto di Paradiso in noi, nel cuore di Mohamed e di tutta la comunità. E’ questa la ricchezza di un povero.
E così chinandoci verso un malato, immigrato, orfano, analfabeta abbiamo alzato lo sguardo facendo gesti dal sapore di eternità che hanno portato un pezzetto di Paradiso. E’ questa la ricchezza di un malato,orfano,immigrato,analfabeta.

Forse questo pezzetto di Paradiso che Mohamed sentiva intorno a sè ha impedito che lo scoraggiamento, la solitudine, la disperazione della sofferenza prendessero piede nel suo cuore, e lui mantenesse vivi ed amplificasse quel tesoro di valori, fede, umanità, bontà che già aveva. Si perché Mohamed era un ragazzo dalla fede forte, 5 volte al giorno pregava, anche su un lettino del pronto soccorso di Bologna mentre si torceva dal dolore, si è girato in ginocchio verso la Mecca.

Era unito a Dio e sentiva dentro la voce del suo papà nei momenti difficili. Per questo era onestissimo, profondo, buono.

Mohamed sapeva ridonare a piene mani tutto ciò che riceveva, affetto verso i ragazzi diversamente abili, accoglienza coi bambini, aveva richiesto di portare un sorriso ai bambini figli dei detenuti a Rebibbia, se la malattia non glielo avesse impedito. Se gli veniva donato un paio di pantaloni lui ne prendeva un altro dei suoi e lo donava ad un povero.
Aveva parole di sostegno per i suoi amici immigrati e forte della sua fede ha riportato alla preghiera diversi ragazzi cristiani che con lui si confidavano, li invitava a frequentare più assiduamente la messa perché diceva che non si può andare avanti senza parlare con Dio.

Un giorno alla mamma che le confidava la preoccupazione che lui fosse diventato cristiano ha risposto: “No mamma, io vivo in una famiglia cristiana che mi rispetta, mi fa vivere la mia fede musulmana, mi fa mangiare e pregare da musulmano e mi porta in moschea… ho scoperto che i cristiani vivono l’amore al fratello che è scritto anche sul Corano. Attraverso di loro sto riscoprendo la mia vera spiritualità di musulmano.

Scherzoso,umile, semplice, ha affrontato il dolore con grandissima dignità, senza lamentarsi mai.
Mohamed non aveva nulla e per questo prendeva tutto dalle mani di Dio che pregava, amava,sentiva vicno… quel Dio che gli ha dato una famiglia grande come la nostra comunità, quel Dio che lo ha vestito, nutrito,sollevato attraverso questa sua comunità, quel Dio che oggi lo voluto a sé.

Un giorno ha detto a Luca: Io sono sereno perché prendo tutto dalle mani di Dio…se lui vuole che io resti qui, lotterò con tutte le mie forze per vivere, ma se mi vuole con sé, io sono pronto. Che ricchezza un musulmano.

Ieri per la prima volta abbiamo visto e parlato con la sua mamma, e tra le tante cose ci ha detto: Mohamed mi ha detto tutto, mi ha detto che non ha mai dovuto chiedere niente perché ancor prima di chiedere voi capivate di cosa aveva bisogno…voi siete la sua vera famiglia… io gli ho dato la vita naturale, ma voi gli avete dato la vita vera…
Questo è il suo ringraziamento a tutta la nostra comunità”.

https://vimeo.com/channels/1087292/200986631




70 anni a servizio del bene comune

L’invito a festeggiare un compleanno è sempre gradito, e a Marene nel cuneese si festeggiano i settant’anni della Bertola s.r.l. Cromatura Nichelatura Ramatura, azienda fondata nel 1946 da Antonio, papà di Livio Bertola e da due zii. L’azienda è ormai leader nel settore dei trattamenti galvanici e da 70 anni lavora al servizio di importanti industrie specializzate in attrezzature sportive, automobilistiche, motocicli, arredamenti di interni, serramenti per l’edilizia e altro. Tra i suoi clienti annovera importanti aziende quali la Technogym, F.C.A. Chrysler, Ducati, Guzzi, Piaggio.

….

Tra gli oltre cinquecento partecipanti in un clima di famiglia, di festa grande e semplice tocca a Livio Bertola e ai figli Caterina, Paolo e Marco attuali titolari dell’azienda, raccontare la storia di questa “avventura” fatta di concretezza e determinazione, di rapporti onesti e trasparenti applicati ai dipendenti. E di scoperte che ogni singolo fa sulla propria pelle e mette a disposizione per migliorare il lavoro e il rapporto con ciascuno di quanti hanno a che fare con la Bertola srl. Ad ascoltare questa bellissima storia c’è il vertice dell’industria piemontese, tanti imprenditori, amministratori comunali, tanti amici di Marene e persone che hanno conosciuto l’azienda e che sono arrivati dai quattro angoli dell’Italia per festeggiare questo compleanno. A tutti Livio spiega cosa ha fatto speciale questa azienda. «Quando all’inizio degli anni novanta sento parlare di Economia di Comunione voglio approfondire e nel 1995 partecipo ad un incontro con persone di diverse convinzioni religiose e dove si parla della spiritualità di comunione». In quell’occasione Livio incontra Chiara Lubich, «La sento parlare ad un gruppo di persone composto da non credenti, agnostici, cristiani. “La cosa più importante nella vita – dice – è amare. Amare tutti, amare per primi, amare mettendosi nei panni dell’altro, ma soprattutto amare senza interessi”».

Tratto dal sito http://www.edc-online.org/it/

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E’ iniziata così la seconda fase della mia vita lavorativa . . .

Dopo circa due anni di lavoro in banca ho iniziato ad avere più di qualche scrupolo di coscienza, che mi faceva chiedere sempre più spesso, se ciò che facevo, fosse giusto oppure no.

E’ pur vero che, nella routine lavorativa, nell’andamento che ha sempre caratterizzato un certo modo di fare, tutto sembra normale, ma, nel momento in cui la banca aveva orientato il suo interesse, dal cliente al prodotto, in un’ottica di massimizzazione del profitto, i problemi sono aumentati. E con essi sono aumentati anche i miei scrupoli di coscienza nel seguire un andazzo che poco si adattava al mio modo di vedere, soprattutto nei rapporti con i clienti, con i quali cercavo di tessere rapporti umani veri.

E’ stato un periodo molto difficile nel quale non sapevo cosa fare e ho iniziato a pensare che quello del bancario non fosse il lavoro adatto a me.

Dopo poco tempo, confidando ad una persona questi scrupoli e chiedendo un parere, con sorpresa mi vedo proporre tre soluzioni: 1) adeguarmi senza pormi domande 2) andarmene cambiando lavoro 3) restare cercando, nel mio piccolo, di cambiare le cose.

Aggiungo anche che le prime due soluzioni non avrebbero risolto il mio problema:  adeguarmi avrebbe messo a tacere la mia coscienza fino al punto in cui sarebbe esplosa, nell’andarmene avrei ritrovato lo stesso problema anche altrove.

Ho deciso così di rimanere dov’ero, iniziando a guardare il mio lavoro di sempre, sotto una nuova luce e viverlo secondo una nuova prospettiva. Soprattutto, con l’ obiettivo che non fosse solo l’arrivo del 27 del mese!

Mi sono subito reso conto che, lavorare secondo principi di correttezza, di giustizia e di onestà costava, talvolta anche economicamente, per mancate promozioni e minori premi, e costava ancor più in emarginazione.

E questo è l’aspetto che fa veramente male, più ancora di quello economico! Non far parte del giro, significa perdere opportunità, non venire a conoscenza di notizie utili, non essere considerati… e allora che fare? Mi sono ricordato che una volta Chiara Lubich parlando con un giovane aveva detto che sul posto di lavoro dobbiamo cercare di far fruttare al massimo le nostre capacità. Non tanto per far vedere agli altri quanto sei bravo, ma per mettere a frutto i talenti che Dio dona nell’ aiutare chi gli sta intorno, partendo dai colleghi e via via sempre più in là.

Sono tornato a casa con le idee chiare!

E’ iniziata così la seconda fase della mia vita lavorativa, quella cioè, in cui ho cercato di conoscere a fondo ciò che la banca voleva da me, sia che si trattasse di prodotti di investimento che di analisi di bilancio per valutare affidamenti. Mi sono reso conto che essere professionalmente preparato mi apriva delle possibilità inaspettate e un po’ alla volta, soprattutto per i colleghi più emarginati, iniziavo ad essere il riferimento ed il portavoce.

La battuta ironica, il cercare di sdrammatizzare i momenti difficili, l’ atteggiamento di non allineato alla corrente di turno, mi aiutava ad essere me stesso davanti a tutti, senza distinzione di ruoli o gradi. E’ iniziato così un ulteriore periodo di crescita professionale che mi ha portato a lavorare per momenti più o meno lunghi a Padova, a Roma e a Milano.

Oggi, dopo trent’anni, sono contento del mio lavoro e continuerò a svolgerlo con coscienza e professionalità.

Giorgio




Reciprocità alla prova dei fatti

Quando in una parrocchia si condivide non soltanto l’Eucaristia…

(di Emilio Rocchi – tratto dalla rivista Gen’s n.3/2016 p.127/128)

Domenica 22 marzo 2015. Nella parrocchia di santa Maria Apparente – chiamata così a motivo di un’apparizione della Madonna il 5 giugno 1411 – alla periferia di Civitanova Mar- che, tanta gente si muove a donare oggetti, portare viveri, materiale diverso… per condividerlo con i più in difficoltà. Inoltre varie persone si dichiarano disponibili a dare del tempo per i “più piccoli” di cui parla Gesù. E’ il parroco stesso il narratore di quest’esperienza.

In parrocchia, dove mi trovo dal 25 ottobre 2014, vi sono diversi membri e aderenti del Movimento dei Focolari con i quali ogni mese cerchiamo di vivere una Parola biblica (frase a senso compiuto scelta in genere dal Nuovo Testamento). Nel marzo 2015, avevamo la frase: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8, 34). Nel commento di Fabio Ciardi si riportava una espressione di Igino Giordani che mi ha molto toccato: «La scalata, fatta in cordata, da molti, concordi, diviene una festa, mentre procura un’ascesa» (1).

Così, quando vennero Alessandro e Sonia a dirmi che volevano proporre a quel nostro gruppo di fare “il fagotto”, di mettere cioè in comune quello che uno ha di superfluo cosicché altri, nella necessità, potessero usufruirne, mi sono sentito spinto a dire: «E se questo lo proponessimo a tutte le persone che vengono alla Messa domenicale? Non potrebbe essere importante mettere a servizio di tutti quelle intuizioni che Dio ha dato a Chiara Lubich e che possono offrire soluzioni a tanti problemi di oggi?». E aggiunsi: «Ve la sentireste di dirlo nella Messa principale?».

Era immediata la loro adesione e così hanno preparato un invito che hanno poi letto in chiesa la domenica e appeso pure bacheca parrocchiale.

In quest’azione erano coinvolte, innanzi tutto, le persone impegnate a vivere la Parola di vita e le loro famiglie, e non ci si rendeva conto sino al giorno fissato di come la proposta avesse trovato accoglienza e intercettato la sensibilità di molti.

Un elemento si aggiunse ma che non ha creato disagio. Fui ricoverato in ospedale all’indomani dell’annuncio fatto in chiesa, per sostenere un’operazione e, a motivo della convalescenza, non ebbi modo di seguire gli sviluppi dell’iniziativa. Tornai in parrocchia poche settimane dopo, e lì venni messo a conoscenza di ciò che era accaduto: numerose persone avevano portato al mattino e nel pomeriggio oggetti, ma anche diversi erano andati a vedere se potevano trovare ciò di cui avevano bisogno.

E tutto vissuto in una grande semplicità cosicché non c’era né orgoglio in chi aveva dato né disagio in chi andava a prendere qualcosa. Nello stupore di tutti – a cominciare dal mio – si è visto come la comunità avesse vissuto la “cultura della reciprocità”.

Per diversi giorni si è trattato di distinguere e selezionare quanto era arrivato in modo da poterlo mettere a disposizione nel modo più armonioso e pratico possibile. Il molto che è avanzato, lo si è portato nel dispensario della Caritas cittadina e nella sede di quella diocesana.

1) Cf. I. Giordani, La divina avventura, Città Nuova, Roma 1966, pp. 149ss.




Carlo & Alberto: due come noi

26-02-2016 di Franz Coriasco
Fonte: Rivista: “Unità e Carismi” n. 3/2016 p. 47/50
La Diocesi di Genova ha iniziato nel 2008 una causa congiunta per la beatificazione di due amici, Carlo Grisolia e Alberto Michelotti, morti 36 anni fa, a 40 giorni di distanza l’uno dall’altro. Alberto, nato a Genova il 14 agosto 1958, animatore ACR, catechista, impegnato in parrocchia; con la Mariapoli del 1977, “Dio amore” entra nella sua vita. Carlo Grisolia, nato a Bologna nel 1960, da Chiara Lubich ha imparato la strategia del “farsi santi insieme”. Alberto e Carlo sono nello stesso gruppo gen della Val Bisagno. Lasciamo che ci racconti la loro storia uno che li ha conosciuti da vicino.

Tanto vale dirlo subito: questo ricordo è innanzi tutto la storia di un apparente paradosso. Anzi, di parecchi paradossi e di altrettanti azzardi, oltreché del mistero e degli smarrimenti che accompagnano gli umani quando si trovano a fare i conti con le dipartite troppo premature. Perché, tanto per cominciare, i due protagonisti di questa storia sono solo in parte “due come noi”, visto che è in corso la loro causa di beatificazione; eppure, per come li ho conosciuti, come noi lo erano davvero.

Alberto Michelotti è morto cadendo in un canalone alpino il 18 agosto 1980, quando aveva solo ventidue anni, e Carlo Grisolia ha lasciato questa vita appena qualche settimana dopo, stroncato a vent’anni da una malattia terribile, tanto rapida quanto incurabile. Un tragico intreccio a guardarlo dal basso, e tuttavia per molti, capaci di guardarla da un’altra prospettiva, una storia “a lieto fine”. S’era agli inizi degli anni Ottanta, la decade più cialtrona e sensazionalista del Novecento, e oggi mi vien da pensare che quei due c’entravano con i nascenti “anni di panna” quanto un praticello di primule con un caterpillar.

Li avevo conosciuti entrambi, qualche anno prima: due amici in mezzo a tanti altri, come avviene spesso in quell’età di mezzo che separa le ebbrezze dell’adole- scenza dalle impervie responsabilità dell’età adulta. Alberto e Carlo: due creature a loro volta in antitesi o complementari, a seconda dei punti di vista. Certo in- finitamente diverse per carattere, temperamento, background culturale, gusti. In comune avevano una città, Genova, che per noi torinesi ha sempre rappresentato una specie di mistero, affascinante e pericoloso insieme: a immagine e somiglianza di quel gran mare che l’accarezza e la schiaffeggia da millenni.

Genova, così ben raccontata da quella progenie di cantautori così creativa e particolare da venir definita “scuola”. A noi torinesi, seccava un po’ che a manco duecento chilometri di distanza ci fosse un tale campionario d’artisti, e da noi quasi nessuno in grado d’arrivare alla ribalta nazionale. Forse per questo li vede- vamo sempre con una punta d’invidia e mezza di circospezione, questi genovesi: così caldi nel loro essere amici, così esageratamente sentimentali secondo noi altri sabaudi, sempre così riservati, iper selettivi e talvolta algidi perfino nelle nostre amicizie. Certo s’era tutti parte del medesimo Movimento gen, ma i rispettivi imprinting apparivano agli uni e agli altri più lontani della luna.

Carlo e Alberto, due storie che qualcuno ha voluto unire e scandagliare insieme per valutare se, per caso, fossero il segno, o meglio le prime avanguardie, di un nuovo tipo di santità: una santità collettiva, diversa dai cliché consueti. Come dicevo, il processo di beatificazione è in corso, sicché tocca sospendere il giudizio. Del resto non son certo qui per esprimere pareri in proposito (per un agnostico sarebbe davvero imperdonabile), quanto piuttosto per sorvolare un vecchio sentiero: non solo per il piacere di raccontarlo e raccontarli, sia pure da un angolino alquanto marginale, ma fors’anche per ritrovare panorami e sensazioni antiche, epperò credo ancora necessarie, specie in tempi ansiogeni e smarriti come questi.

Ora che ci penso, un’altra cosa avevano in comune quei due: la loro generazione (che per molti versi è anche la mia), quella vagamente ibrida di chi, all’epoca, era troppo giovane per inebriarsi sulle tenere e già svaporanti illusioni del Sessantotto, ma già troppo vecchio per immergersi nell’individualismo più o meno edonista che avrebbe segnato quella seguente. Una generazione “di mezzo”: ancora conta- minata dai radicalismi stradaioli dei nostri amici più grandi, ma che già si portava addosso e nel cuore il sospetto della loro ingenuità o deteriorabilità. E tuttavia sì, Alberto e Carlo erano diversi. E tali apparivano, perfino per chi, come me, li incrociava di rado. Ma bastava guardarli e stare con loro una mezz’ora per capire quanto. L’uno così perfettino, determinato e attraente (da intendersi nel senso più letterale e profondo dell’aggettivo), l’altro così fragile, inquieto, introverso e aggrovigliato. Un pragmatico con propensioni mistiche, il Michelotti; un poeta dilaniato dai dubbi, il Grisolia; così mi sembravano: l’uno un involontario trascinatore di folle, e l’altro un cercatore d’oro; l’uno sempre pieno di risorse e d’attenzioni per tutti, l’altro spesso rinchiuso in quel suo idealismo romantico e sovente solitario. Come abbiano fatto a volersi così bene e a condividere i passi salienti delle loro rispettive vicende è presto detto: un’amicizia fondata, prima ancora che sulle affinità elettive, sul sentirsi parte di un progetto grande e incorruttibile che li trascendeva. Entrambi avevano scelto di fare del vangelo la loro stella polare. Entrambi sentendosi inadeguati a incarnarne fino in fondo le regole e le logiche, ma entrambi convinti che per farcela occorresse procedere “in cordata”, dandosi una mano l’un con l’altro. E anche questo ci dice qualcosa su una spiritualità capace di superare in qualche misterioso modo qualunque barriera caratteriale e tempera- mentale, oltreché quelle culturali, religiose, razziali, o di ceto sociale. Questo era, e sostanzialmente è ancora oggi, il nocciolo duro dell’essere gen.

Quando i due si conobbero erano entrambi già formati, e stavano attraversando quella decisiva stagione della vita dove solitamente gli obiettivi e i valori di riferimento affratellano ben più delle complementarità. Per onestà aggiungo che, se anch’io, come quasi tutti, ero affascinato da Alberto (dalla sua gentilezza, dal suo carisma, dalla sua simpatia estroversa), da Carlo invece giravo quasi alla larga: un po’ perché riconoscevo in lui i miei stessi difetti, un po’ perché non era uno che lasciasse entrare nel suo mondo chiunque gli si affacciasse. Ciò detto, era chiaro a chiunque li conoscesse che le loro rispettive essenze e consistenze erano alquanto difformi, e nessuno – tanto meno loro – avrebbe mai potuto supporre che un giorno si sarebbero intersecate così intimamente da renderli quasi parte uno dell’altro.

Io e Alberto siamo nati a poco più di un mese distanza. Carlo era di due anni più giovane. Con Alberto, avevo occasione di vedermi più spesso e devo ammettere che ogni volta restavo regolarmente affascinato non solo dalla coerenza della sua radicalità evangelica, ma anche dal candore con cui sapeva ammorbidire un’intelligenza e un intuito davvero fuori dal comune.

Anche se non dava l’impressione d’esserne cosciente, sembrava star lì solo per dimostrarti implicitamente quanto ancora ti mancasse per poterti considerare un cristiano autentico. Viceversa, Carlo mi faceva spesso pensare a qualcosa tipo “se ce la fa uno così, allora ce la posso fare anch’io”. Ricordo perfettamente quella mattina d’agosto quando arrivò la notizia della morte di Alberto, nello stesso giorno in cui Carlo venne ricoverato in ospedale per non uscirvi più. Ricordo quella struggente Signore delle cime, cantata con le lacrime agli occhi, ancora incapaci di credere che fosse davvero successo. Alla “partenza” di Carlo arrivammo solo un po’ più preparati, ma non meno sorpresi: soprattutto da quella straordinaria quarantena ospedaliera che aveva segnato per lui un’escalation mistica impressionante, e grazie alla quale, anche quell’idiota del sottoscritto arrivò finalmente a rendersi conto quale fosse davvero la sua “cilindrata spirituale”.

Molte cose di loro le avrei scoperte solo molti anni dopo. Come gli affettuosi “pizzini” che amavano scambiarsi, i loro grovigli sentimentali e spirituali, i passaggi più delicati e privati delle loro esistenze, le loro intimità con quel Dio così reale e tangibile, specie nei loro ultimi scritti. Tempo fa ho avuto modo di rincontrare i loro amici più intimi e le loro madri, e molte delle mie sensazioni primigenie si poterono finalmente accordare con una più oggettiva realtà dei fatti. Ma sono sensazioni così difficili da esprimere per me oggi, che preferisco lasciare al lettore l’intuirle dalle loro parole. Pochi mesi prima di morire, Alberto scrive a Carlo, appena partito per il servizio militare:

Sono in questa splendida chiesa di S. Siro. Sono solo, e sul tetto di legno sento picchiare dolce la pioggia. È un momento tutto particolare, bellissimo. Quasi non vorrei andarmene più. Sono passato di qui per mettere nel Suo Cuore tutte le infinite cose che io non so fare, che magari rovino soltanto. Tra le tante, in questi giorni ci sei tu… Quasi sento nella mia carne, nel mio cuore, il momento delicato che stai attraversando, che sto attraversando. In questo silenzio così bello mi sta rispondendo che non ci possiamo fermare; amare, amare tutti, spaccarci il cuore per fare uscire il vero amore, quello nato dal dolore…

Facile immaginare quale fu lo strazio di Carlo quando seppe della morte di Alberto, ma pochi giorni prima di raggiungerlo dall’altra parte del cielo, confidò a un gen venuto a trovarlo in ospedale, una sorta di “consegna”, probabilmente la stessa che avrebbe espresso Alberto se ne avesse avuto il tempo:

Sono alla fine. Volevo dirti di essere pronti a dare la vita l’uno per l’altro in questo momento… Offro la mia vita per tutti voi, ma soprattutto per l’umanità che soffre, per i ragazzi del mio quartiere, per tutti quelli che ho conosciuto… So dove vado, sono pronto al tuffo in Dio.

Parole semplici, prive di qualunque zavorra retorica perché in loro erano divenute parte di una concretissima grammatica esistenziale.
Per uno strano scherzo del destino, nella mia vita ho avuto la ventura di incrociare e di conoscere un bel po’ di persone “in odor di santità”: da Maria Orsola che fu la mia maestra di catechismo, a Chiara Luce Badano, per non dire di Madre Tere- sa e Chiara Lubich, solo per citare quelle più o meno certificate da santa romana Chiesa. Ebbene, se è vero che le vie che portano a questo misterioso status sono veramente infinite, e se esso è – per esprimerlo laicamente – un’ansia di perfezione, d’eternità, d’assoluto portata a compimento, allora devo sospettare che Alberto e Carlo ne rappresentino, almeno per come li ho conosciuti – due estremi: l’uno mi pare che ci sia quasi nato, l’altro che lo sia diventato “in zona Cesarini”, o per usare un’espressione più consona, come “un operaio dell’ultima ora”. È una sensazione personale beninteso, ma che anche oggi, a trentasei anni dalla loro di- partita, non riesco a levarmi dalla testa. Ma non è questo il punto, né può esserlo per chi come me non può o non sa più credere. Quel che piuttosto questa vicenda mi ricorda e continua a insegnarmi è che alla fine dei conti è davvero solo l’amore a non svaporare nelle infinite notti del tempo e nei fiati delle chiacchiere: quel che abbiamo saputo dare, e quello che si è ricevuto.




L’amore per l’altro deve pur costare qualche cosa!

Dopo la laurea ho trovato un lavoro interessante fuori città. Si parte presto in treno e si ritorna tardi la sera. Di tempo per me resta solo il sabato, perché la domenica ho diversi impegni in parrocchia. So che mia madre desidera partecipare alle mie scelte. Così per farla contenta mi faccio accompagnare nelle mie compere.

E’ qui che scopro un suo atteggiamento che non va: la commessa non ha neppure il tempo di mostrare l’oggetto richiesto che la mamma già ne chiede un altro e poi un altro ancora senza neppure guardare. Leggo dapprima il disappunto in faccia alla commessa, poi il nervosismo, che mi coinvolge e rovina questi momenti piacevoli. Decido di non interpellarla più ed esco sola. 

Ma non sono contenta.  Trascorre qualche sabato, le parlo ed usciamo di nuovo insieme. Lei non è cambiata, ma l’amore per l’altro deve pur costare qualche cosa!




Erminio Longhini: bravo medico, grande uomo

10-11-2016 di Silvano Gianti
fonte: Città Nuova

Un ricordo di questo professionista, scomparso nei giorni scorsi, medaglia d’oro al merito per la Sanità e fondatore, insieme alla moglie Nuccia, dell’associazione volontari ospedalieri, Avo

«Ringrazio l’Eterno Padre perché nella mia vita ho avuto molto più di quanto immaginavo. Ringrazio Maria, e tutte le sere concludo le mie preghiere dicendo: “Visto che sono alla fine della mia vita fammi morire a casa, se possibile con il conforto di un sacerdote, ma soprattutto sii Tu a venirmi a prendere e sarà piena letizia: ti sentirò e ti vedrò”». Concludeva così una sua testimonianza data davanti ad un gruppo di amici all’inizio dell’estate scorsa, il professor Erminio Longhini già primario nel reparto di Medicina interna presso l’ospedale di Sesto San Giovanni a Milano.

L’età avanzata, gli acciacchi che ultimamente si erano fatti sentire in maniera molto forte, gli avevano prefigurato un quadro clinico che lui da medico aveva ben capito. «Quando mi chiedono come mi sento mi viene istintivamente di rispondere: come una foglia d’autunno in una giornata di vento. Sembrerebbe più desiderabile il venire della sera della vita. Poi capisco che si nasconde una tentazione e al mattino, al risveglio, capisco che mi viene donato un altro giorno di vita e che la vita è vivere il momento presente – la misericordia per quanto riguarda il passato e la speranza per l’avvenire».

E la sera della vita, per Erminio è sopraggiunta come una carezza di Maria. Materna, serena. Lui l’aveva invocata: «sii Tu a venirmi a prendere e sarà piena letizia: ti sentirò e ti vedrò». Erminio Longhini, la nostra rivista ne ha parlato più volte – è stato un medico particolare. Un grande uomo della medicina che ha saputo chinarsi sulle ferite delle persone e a sollevarsi solamente quando da quelle ferite era riuscito a trovarvi un rimedio. Una soluzione. Per lui la persona è sempre stata al centro di tutto il suo agire.

Per un paziente raccontava, studiava ore ed ore, faceva ricerca, provava soluzioni, finché otteneva quanto desiderava. Serio, scrupoloso, esigente e intransigente. E tenero. Sì, a Michela hai rivelato la tenerezza del papà per la figlia e lo hai fatto a modo tuo. Non tutto, non subito, ma alla fine dei tuoi giorni in un gioco di carezze, di sguardi, di gesti e di intese che rivelano il grande cuore di un grande medico, ma ancor più di un grande papà, che da piccolo avrebbe voluto diventare ingegnere minerario, ma per accondiscendere ai genitori si era iscritto a medicina. Ma appena laureato lo spauracchio: «non pensavo di riuscire a sopportare il peso dei problemi dei malati e tentai delle scappatoie».

Poi guardando la Madonna a Lourdes, una sera, «mentre pregavo, fui illuminato da un pensiero: “Nella vita non occorre essere il vangatore, ma occorre essere una buona vanga”. Mi sembrò un vero patto: avrei avuto nell’esercizio medico l’aiuto di Maria se avessi fatto completamente il mio dovere di preparazione». Erminio prende con sé stesso l’impegno che a qualunque punto della sua carriera fosse arrivato, avrebbe sempre dedicato allo studio almeno due ore giornaliere.

Nuccia fu una sposa e una moglie straordinaria: «Lavoravo dalle 7 del mattino all’1 di notte per le esigenze del lavoro e della ricerca. Quando tornavo a casa spesso non riuscivo ad aprire la porta perché Nuccia si stendeva su una coperta per terra, in modo che al mio arrivo obbligatoriamente la svegliassi e così potesse riscaldarmi la cena». Dal matrimonio nascono tre bambini, Stefano, Michela e Matteo, e il culmine della carriera arriva con la nomina a primario a Sesto San Giovanni.

Grazie a generosi contributi di una imprenditrice, mette in piedi un reparto di medicina interna con apparecchiature all’avanguardia ed accoglie giovani laureati italiani e di paesi in via di sviluppo che possono formarsi. Riesce a motivare colleghi ed infermieri e la divisione medica da lui diretta diviene una delle migliori, sia come rapporto umano che tecnico, con centinaia di ricerche pubblicate. Capisce che non basta curare la malattia, ma occorre prendersi cura della persona.

Coinvolge la Facoltà di Sociologia dell’Università Cattolica per una ricerca in 40 ospedali lombardi, da cui emerge che il maggior disagio dei malati è la perdita di autonomia, il dover dipendere da un altro. «Mi viene un’idea che comunico a mia moglie e ad alcuni collaboratori: perché i nostri amici non donano un po’ del loro tempo per instaurare un rapporto umano, uno scambio d’amore con i nostri malati? Ebbene, non senza ostacoli e mille complicazioni riusciamo a portare i primi 30 volontari in corsia, disposti ad occuparsi dei malati oltre le cure».

Da questo piccolo gruppo di volontari, e con l’operosità e tenacia di Nuccia, nel 1976 nasce l’Avo (Associazione volontari ospedalieri). «È lo Spirito Santo, bisogna andare avanti così», lo incoraggia il cardinal Martini, e lo stesso papa San Giovanni Paolo II: «Sono contento, dica ai suoi amici di continuare così». L’Avo si diffonde in tutta Italia e conta oggi 25.000 volontari in 250 ospedali. E Longhini continua a formare spiritualmente i volontari con scritti e videomessaggi fino alla fine.

Per questo suo impegno, nel 2004 è insignito con la medaglia d’oro al merito della Sanità dal presidente Ciampi. In questi ultimi anni si affina in lui la mitezza, l’abbandono in Dio, la gratitudine per i doni ricevuti e per il rapporto costruito con tanti nel Movimento dei Focolari. «Grazie a voi fratelli, perché se tante realtà mi sono entrate in cuore è frutto di aver vissuto con voi ciò che poi ho cercato di diffondere».

Nel comunicato dell’Avo inviato a tutte le sedi italiane dal suo attuale presidente si legge: «Ci lascia un grande uomo, capace di cogliere con la sua sensibilità, con l’umanità e con la sua fede quell’essenziale che spesso gli occhi non vedono e nemmeno le menti. Non ci lascia però soli, anzi, ognuno di noi lo ritroverà nel proprio servizio se saprà mettere a frutto tutto il sapere, la saggezza, la profondità che Erminio ci ha sempre comunicato ed insegnato».

Vedi anche articolo: il-ricordo-di-erminio-longhini




I bambini ci raccontano come vivono il Vangelo

  • In questo periodo la mia mamma lavora tanto e non mi dedica tante attenzioni come faceva prima. Stiamo meno tempo insieme e pensando che in casa manca anche il papà… Nella preghiera ho parlato con Gesù di questa situazione e gli ho detto che volevo unire questa piccola sofferenza alle sue. Ho provato una gioia speciale.
  • In classe è arrivata un supplente per il quale non provo simpatia e così ho parlato male di lui. Quando ho parlato con Gesù nella preghiera mi sono vergognata di quello che avevo detto. Purtroppo la cosa era già fatta. Allora ho pensato di unire la sofferenza per questo mio errore a quelle di Gesù, ed ho ritrovato la pace nel mio cuore.

bambino

 

  • Una mia compagna di classe non riusciva ad aprire la bottiglietta dell’acqua. L’ho aiutata appoggiando la bottiglietta sul banco, ma lei l’ha fatta cadere. La colpa era sua e toccava a lei pulire. Ma mi sono presa io la colpa e l’ho aiutata a pulire.

 

  • Mia sorella mi dice spesso parole offensive che sono difficili da sopportare. Adesso però ho imparato che posso unire questa sofferenza a quelle di Gesù , che è infinitamente buono e tutto mi diventa più facile. Così sono libera nel cuore ed è più facile aiutare le persone che mi circondano e questo è molto importante.
  • Qualche giorno fa il mio papà mi ha offeso e mi ha trattato male. Io mi sono sentito inutile e non amato da una persone che per me è importantissima! L’ho perdonato anche se sono ancora un po’ ferito. Sono certo che dentro di lui c’è Gesù.

 

 




Ho trovato un modo bello di vivere, non voglio tornare indietro

Dopo anni di pausa, ho iniziato a frequentare di nuovo la parrocchia, dove ho scoperto un Dio meraviglioso, che mi ama senza misura. Da allora nella mia vita sono avvenuti molti cambiamenti. Innanzitutto sono scomparse le ansie e le paure legate al mio temperamento.

Poi, una fede più viva mi ha cambiato il cuore: mi sento sorella di ogni persona, anche questa è una scoperta straordinaria. Adesso è raro che mi sfugga un giudizio sugli altri, perché mi sento legata ad ognuno anche quando non lo conosco. Dio è Padre di ciascuno, e noi fratelli fra noi.

Da subito ho avvertito il bisogno di aiutare gli altri: con la presenza, con una parola da dire, con gesti concreti. Credo di aver scoperto l’amore verso gli altri. Voglio narrare di un aspetto particolare a cui non avevo mai dato valore prima: ho scoperto di avere tanto superfluo in cose e tempo. Un giorno con mia figlia ho aperto l’armadio della camera ed ho constatato che potevo benissimo vestirmi per due anni senza comperare alcun capo. Perdere l’assillo del comprare e dare l’equivalente ogni mese mi ha procurato tanta felicità.

Spesso invitavo i familiari ad uscire per andare al ristorante; quest’esigenza non la sento più. Sto benissimo a casa mia, posso risparmiare quella somma e darle. E mi sento felice. Non ho perso l’occasione di uscire con mio marito, ma ho acquistato l’occasione di stare con lui, più in pace, più nell’essenziale.

Ogni mattina andavo a prendere il caffè al bar. Mi sono chiesta: posso fare meglio? Sì, ad esempio prendere il caffè in casa con i figli o da un’amica per farle un poco di compagnia. Tutto questo senza nulla togliere nulla ad alcuno, anzi dando di più!

Non voglio voltarmi indietro, riprendere la strada di prima. Io ho trovato un modo bello di vivere.




Finalmente faccio un lavoro importante

Qualche problema di salute negli anni dell’infanzia mi ha portato lontano da casa. Il ritorno in famiglia è avvenuto alle soglie della prima giovinezza.

La rabbia per non aver ricevuto tutto dalla vita come le mie coetanee, mi ha proiettato su ciò che era facile da ottenere: nottate con la compagnia, ritorni ad orari impossibili, libero amore, trasgressione.

Ora che ho varcato la soglia della mezza età, del mio passato, purtroppo, ricordo ben poco di positivo. Mi ritrovo senza amici veri e senza aver costruito rapporti profondi. Per di più nel cuore è distrutta anche la speranza di farmi una famiglia.

Una domenica, carica di delusioni, su invito di un’amica mi trascino in una chiesa. Mi sembra di respirare aria fresca, pulita. Anche qui si usa la parola ‘amore’, ma non con i significati che usavo io con gli amici di turno. Qui l’amore genera unione vera fra le persone, e non lascia amarezza.

Continuo a partecipare; vengo notata ed invitata a fare qualcosa per gli altri, ad amare gratuitamente.

Ascolto Gesù che nel Vangelo racconta di un padrone che chiama operai a tutte le ore, fin alle cinque del pomeriggio; e che alla fine da a tutti la stessa paga. Dopo il tanto tempo sciupato, io potrò lavorare un’ora sola, ma riceverò una paga uguale a quella degli altri.

Sono proprio contenta, ho un buon “titolare” e finalmente faccio un lavoro importante.

A.




“Oltre-tutto”, integrazione dei ragazzi disabili

“OLTRE TUTTO” è nata per iniziativa di Rossella e Andrea Fipertani insieme ad un gruppo di genitori di Cento, con in comune l’esperienza diretta del mondo della disabilità, per promuovere iniziative che favoriscano l’integrazione dei ragazzi disabili nella società.
Il primo progetto in corso di realizzazione è l’apertura di una SALA DA TE’ a Cento con l’obiettivo di creare un luogo d’incontro in cui sia concretamente possibile l’INCLUSIONE e la CONDIVISIONE SOCIALE.

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Fonte: Oltre-tutto_dal sito focolaremiliaromagna.org




Al bar, amare tutti

Ogni giorno lancio il “dado dell’arte di amare”(vedi allegato). Quel giorno esce la parola: “Amare tutti”.

Ho pensato di fermarmi in un bar per acquistare qualche cioccolatino da regalare alle colleghe di lavoro. Il barista confeziona pacchetti di qualità diverse e nel consegnarli mi dice: “Questa qualità è meno buona, dalla a chi ti è antipatico”.

Rispondo: non dobbiamo avere persone antipatiche, perché dobbiamo amare tutti. Il barista, un poco sorpreso, forse per scusarsi, mi chiede: “Chi è che lo dice?”.

Esito qualche istante nel rispondere, provo un attimo quasi di vergogna nel dire la fonte ispiratrice delle mie convinzioni. Poi affermo: lo dice Dio. Ed il barista a me: “Perché ti vergogni a dirlo? E’una cosa bellissima!”.

La sera sono tornata in parrocchia a prendere un altro dado da portare l’indomani al mio amico del bar.

dado dell’arte di amare

 




A proposito di riunioni

Capita a tutti di partecipare ad una riunione dove ciascuno pensa alle proprie idee, non si ascolta chi parla e alla fine si esce “senza essersi incontrati”. Così stava avvenendo anche quella sera. Mi sono messa in ascolto di quella “Voce” che ciascuno porta dentro di sé e mi è parso di avvertire un suggerimento: “Ascolta Me in ogni persona; ascolta con amore”.

Ho cercato di fare così con tutti quelli che prendevano la parola. Alla fine ho potuto dire anche il mio pensiero: “Senza una vera accoglienza reciproca  le nostre riunioni non portano frutto”.

In quel momento il clima non è cambiato. Ma a riunione conclusa, ho avvicinato alcuni dei presenti che mi confermavano di aver provato lo stesso mio disagio; e si sono impegnati la prossima volta ad ascoltare con amore e senza pregiudizio. Un primo passo è stato compiuto.

 




Vivere bene la malattia

Don Mario accusa da alcuni mesi pesantezza alle gambe, debolezza, stanchezza, febbre: gli viene prescritto un esame, poi un altro, poi un altro, realizzati in varie strutture ma la dottoressa che lo ha in cura non ne ricava una visione completa. Alla fine lei decide per un approfondito check-up e la diagnosi è chiara: mieloma, il midollo non produce globuli rossi .

Ogni lunedì alcuni di noi sacerdoti, che condividiamo con Mario la spiritualità dell’Unità del Movimento dei Focolari, ci troviamo con lui: vediamo la sua sofferenza e il decorso della malattia. Inizia il periodo del discernimento: stare in parrocchia con un badante? andare in una piccola struttura vicina alla parrocchia? Intanto la debolezza fisica si accentua. Deve celebrare da seduto. Appare in lui ogni tanto il pianto: mai avevamo visto Mario piangere, ma un effetto della malattia è anche questo. Matura la decisione: occorre una struttura che garantisca le cure quotidiane. D’accordo col servizio diocesano per i sacerdoti ammalati, si vede conveniente e rispondente alla situazione la R.S.A. (Residenza Sanitaria Assistita).

Nel marzo 2016 Mario lascia definitivamente la parrocchia. Al 3° piano della struttura ci sono alcune camere singole riservate per i sacerdoti. I pasti e la giornata, tuttavia, sono condivisi con 53 persone, 50 donne e tre uomini, nella quasi totalità assenti con la mente, immobili sulle carrozzine: due sono in stato vegetativo e due affetti da Alzheimer gridano in continuazione, portando all’esasperazione. Il personale è competente e accogliente nella componente direttiva, meno motivato nel personale di servizio. Presenza discreta e materna la suora (indiana).

In questo ambiente Mario entra col suo bagaglio di fede e comincia a considerare questa umanità decadente la sua nuova parrocchia da amare.

Ogni giorno dopo colazione dedica 10 minuti ai degenti: spiega e commenta il vangelo del giorno, poi presenta un’applicazione attraverso un’esperienza. Usa un foglio che manda per e-mail a circa 250 persone. Anche le suore che lavorano ad un altro piano della struttura e alcuni del personale lo richiedono.

Ci sono altri quattro sacerdoti nella struttura. Si fa uno col cappellano e un altro sacerdote ancora abile, recitando insieme i vespri, dialogando e partecipando alla catechesi settimanale che il cappellano svolge. Un altro sacerdote è chiuso in sé stesso e non parla: Mario mangia con lui, cerca di amare per primo. Dopo qualche tempo, intravede qualche barlume di risposta: si evidenziano piccoli segni di apertura. Intanto a colazione condivide sempre i biscotti che gli vengono portati dai visitatori, taglia la carne al cieco che siede con lui a tavola. Offre poi brevi esperienze di Vangelo vissuto al personale che entra in camera sua a compiere qualche gesto di servizio, o per portare l’acqua o il succo di frutta o la biancheria.

Nella struttura sono previsti colloqui regolari con lo psicologo: mettendosi in atteggiamento di amore, Mario giunge spontaneamente anche ad un discorso di fede fino a preparare lo psicologo, neo padre, al battesimo del figlio.

A giorni alterni nella RSA si svolge il servizio di barbiere: nel caso è una donna albanese, musulmana. Mario aveva già letto (due volte) il Corano e ora, in dialogo con lei, legge i passi su Gesù, su Maria. In seguito comincia a parlare della vita di Gesù e, previo consenso del marito, musulmano non praticante, le offre il Vangelo, le dà il foglio col brano del giorno, il commento e l’esperienza allegati, tutto in vista di una pratica della parola.

Le due sorelle si sono attivate per il ricovero e per la parte economica e gli fanno visita settimanalmente il sabato o la domenica.

Ci sono ogni tanto anche gli ex-parrocchiani: alcuni vengono dall’ultima parrocchia che è un po’ distante. Questi ex-parrocchiani riascoltano volentieri le parole sulla comunione trinitaria, il “pezzo forte” di don Mario, ma lui non vuole fare un contraltare ai rispettivi nuovi parroci e la condizione che ha posto per continuare è che ciò avvenga in accordo con loro.

Essendo cresciuta la sua sensibilità, Mario percepisce più acutamente le situazioni di infermità che vede attorno a sé o certe disfunzioni che toccano gli ammalati. La nostra visita gli ridona serenità, con la possibilità di condividere la nostra fede, la vita di incarnazione del Vangelo. Avendo tempo a disposizione, Mario segue sul computer tutto ciò che riguarda il Movimento dei Focolari e della Chiesa e questo lo aiuta a pregare ed a vivere in piena sintonia con tutti.

 




Carlo e Alberto: un’amicizia per la santità

 

A Genova, 8 anni fa, veniva aperta il 25 settembre 2008 la causa di beatificazione di Carlo Grisolia e Alberto Michelotti, due giovani dei Focolari che si sono impegnati a vivere il Vangelo insieme con radicalità.

Entrambi veri campioni della spiritualità di comunione, ancora oggi continuano a toccare l’anima delle persone che li hanno conosciuti. La Chiesa ha perciò introdotto la loro causa di beatificazione.
Quale il segreto della loro vita? La scoperta e la messa in pratica della spiritualità dell’unità di Chiara Lubich, via collettiva che porta ad una santità costruita insieme.

Leggi l’articolo completo sul sito internazionale del Movimento dei Focolari

Carlo e Alberto: Un’amicizia per la santità