Una carezza rifiutata

Ero in attesa del mio secondo figlio, mancavano ormai poche settimane al parto e mi trovai in un  Fast Food  a Ragusa. Si avvicinò una barbona con il sorriso sulle labbra perché intenerita dal mio stato interessante e si propose di poter accarezzare il mio pancione, io in quell’istante rimasi  ferma e incapace di rifiutare tale proposta ,la guardai con attenzione e notai  che aveva problemi di vista, vedeva soltanto da un occhio, ed  era mal odorante. Si avvicinò quasi per toccarmi, ma scorgendo la sua mano sudicia, ebbi una forma di ribrezzo, feci un passo indietro per farle capire che non volevo essere sfiorata e scoppiai in lacrime.

Il titolare del locale alla visione di tale episodio  andò su tutte le furie, rimproverò  in maniera accesa la barbona e la cacciò via. In quella situazione si sa che gli stati emotivi sono modificati, ed io non finivo di piangere e sentirmi sdegnata dalla visione di quelle mani. Mi  sentii anche mortificata nei confronti di quella poverina che non avendo fatto nulla di male era stata aggredita verbalmente.

Poi conobbi il meraviglioso ideale di Chiara Lubich. Cominciai a capire che nell’altro e nel prossimo, proprio in quello che mi passa accanto, c’è un Gesù da amare.

L’anno scorso il giorno dell’Immacolata Concezione mi trovavo a Roma con la mia famiglia e precisamente in piazza San Pietro, li’ per caso abbiamo incontrato un gruppo di frati Camilliani e con loro c’era  anche un frate , un cugino di mio marito. Loro erano abbastanza numerosi,  c’erano seminaristi, suore, la fotografa del gruppo, e come ultima in ordine di arrivo e in “in tutti i sensi“ c ‘era Angela. Lei è una signora romana, la osservai per un po’: abbigliamento cencioso, odore poco gradevole, si…presumo sia un‘ultima. Questa volta mi sono avvicinata io a lei, ci siamo messe a parlare e a camminare insieme per San Pietro, la madre della chiesa universale. Mi sembrava di abbracciare il mondo. Stavo parlando con Gesù, nella persona di Angela, lei era dolcissima e molto contenta perché  si sentiva amata dal gruppo e pensata, quando i frati  vanno a Roma passano spesso a trovarla. Angela mi parlava dell’importanza della famiglia e diceva che lei era sola. Sembrava zoppicasse un po’ e nel salire i gradini le chiedevo se avesse  bisogno di una mano, ma diceva di farcela. Ho visto in lei un Gesù solo e non amato da tutti. In questo incontro ho messo in atto l’arte di amare di Chiara …e pensare che anni fa avevo  rifiutato una carezza da parte di Gesù…

Condivido questa mia esperienza perché vivo con la certezza che il nostro cuore può cambiare!

Sonia




Ho inserito nei miei “preferiti” . . .

La Parola di vita di questo mese mi ha spinto a cercare nella giornata, o quando mi è possibile, un momento da dedicare a persone che conosco e che stanno vivendo alcune difficoltà.

Ho inserito nei “preferiti” dello smartphone le persone che ho individuato, per ricordarmele meglio. Sono cose molto semplici come la visita ad un ammalato, una telefonata, un colloquio con un amico che ho visto un po’ preoccupato o con un altro che è costretto in casa da tanto tempo…  

Accogliendo le loro esperienze di vita ne esco sempre molto arricchito, veramente il dolore mette ciascuno a confronto con Dio, ma nella condivisione e nella comunione, Gesù Risorto mi sembra che trovi lo spazio per esprimersi ed illuminarci.




Dio penserà a noi, parti senza indugio

Dopo la morte del babbo, ho dovuto fare da capofamiglia per mamma, nonna e due fratelli. Il mio lavoro assicurava il sostentamento di tutti. Ma quando ho capito che Dio mi chiamava per una via di consacrazione a lui, il pensiero che alla famiglia sarebbe mancato il mio sostegno non mi dava pace. Tanto più che la mamma aveva dovuto lasciare il lavoro per motivi di salute senza che le riconoscessero una pensione, i miei fratelli studiavano. Quando le ho detto la mia intenzione, mi ha risposto: «Sono contenta: Dio penserà a noi, parti senza indugio». Il consenso sereno di mia madre è stato un ulteriore incentivo a credere che Dio avrebbe sistemato al meglio le cose. Trascorse alcune settimane dalla mia partenza, ho ricevuto una lettera da lei: «Dio ha risposto alle nostre esigenze: la pensione di tuo padre, che attendevamo da anni, è giunta proprio in tempo! Valeva la pena aver detto sì a Dio con te».

D. C. – Italia

Fonte: Il Vangelo del giorno, n.5 – Maggio 2017, Città Nuova Editrice, p. 116




Madre

Sono cappellano in un carcere. Vedendo tutti i giorni una donna portare cibi e vestiario pulito a un giovane detenuto, ho immaginato che fosse la madre.

Ma quando le ho chiesto di lei, sono rimasto scioccato dalla risposta: «Non è mio figlio – spiegava lei –: lui è l’assassino di mio figlio. L’unico figlio che avevo. Mio marito mi aveva abbandonata tanti anni fa e sono rimasta sola.

Un giorno, mentre mi rodevo nella mia disperazione, sono venuta a sapere che quel gio- vane non aveva né madre né padre. Ho capito allora che la cosa più logica era diventare io madre sua».

Fonte: Il Vangelo del giorno, n.4-Aprile 2017, Città Nuova Editrice, p. 212




Ci è capitato quello che solitamente capita sempre agli altri!

Sono sposato con questa minuta e allo stesso tempo immensa donna, a cui devo tutto da ventotto anni, ma praticamente ci frequentiamo da sempre, siamo cresciuti insieme  e ancora oggi non abbiamo smesso di farlo. Abbiamo tre figli.

Proprio quando  la nostra vita andava a gonfie vele, nella direzione che volevamo, ci è capitato quello che solitamente capita sempre agli altri. Dieci anni fa ci siamo ammalati di SLA, in effetti questa malattia ha colpito solamente la mia persona, ma di riflesso,  gli effetti condizionano pesantemente la vita di chiunque decida di starmi accanto e sostenermi.

Dovete sapere che, ad oggi, l’enorme peso della disabilità in Italia, è sostenuta dalle  famiglie che operano con immenso sacrificio in totale anonimato, con le istituzioni molto spesso latitanti che ci sostengono solo a parole, senza fatti concreti.

Nella  mia vita dipendo totalmente dagli altri, solamente la mia mente è rimasta integra ,  ma impotente a interloquire con il resto del corpo. La vitalità del mio corpo  non è più “strumento” al servizio della vitalità dei miei pensieri.

Questa tremenda condizione inizialmente mi portò a sentirmi un peso, una zavorra che rallentava la corsa di tutti gli altri. Un giorno mia moglie, alla presenza dei  miei figli mi disse: “Devo pensare che se al tuo posto ci fosse qualcuno di noi, sarebbe un peso per te”, risposi assolutamente di NO! Allora, continuarono in tutti in coro: “Noi saremo sempre felici di essere le tue braccia e le tue gambe, abbiamo bisogno di te!”. Furono queste parole che mi portarono alla conclusione che non si vive solo per sé stessi, ma per le persone che ami e per quelle che ti amano.

Nelle loro azioni quotidiane, vedo l’amore con cui mi permettono di vivere una vita quanto più possibile normale, a volte penso di essere come un’ape regina, circondato da tante laboriose e infaticabili api operaie, ognuna con il suo compito, ma tutti con un obiettivo comune.

Tutto è tornato a splendere di nuova luce, la nostra vita scorre intensamente e in modo sereno, il legame tra di noi è divenuto fortissimo, mai avrei pensato di riuscire a vivere dei rapporti così veri, così puri e sinceri. Tutto, intorno a noi, sembra avvolto da un’atmosfera magica, giorno dopo giorno viviamo godendo di quello che di buono la vita ci offre ancora.

Ho sempre pensato di dover essere io a prendermi cura della mia famiglia, invece mi ritrovo a vivere una situazione diversa, dove sono padre dei miei figli e nello stesso tempo figlio dei miei figli.

Grazie alle loro cure posso affermare che vivo felicemente la mia condizione, la mia vita non la scambierei con quella di nessun altro e infine dico che godere della bellezza del Creato, dell’affetto dei propri cari, val bene un po’ di sofferenza!

Ciò che mi addolora è il pensiero di chi non è fortunato come me, di chi non ha la famiglia a fianco, di chi vive la solitudine e l’umiliazione dell’abbandono: è su queste persone invisibili che dobbiamo concentrare le forze sane della cosiddetta società civile, in un’Italia in cui si salvano banche e banchieri di dubbie qualità morali e non si trovano i fondi per sostenere adeguata assistenza socio-sanitaria ai malati, sgravando così le famiglie da questo immane peso.

La famiglia, una delle poche cellule ancora sane della nostra società, è sotto attacco da molteplici fronti. E’ prioritaria oggi la difesa e il sostegno di questa sacra, inscindibile e naturale istituzione, attraverso la creazione di politiche attive che vadano in questa direzione.

Rivolgo il mio pensiero a tutti coloro che soffrono e a tutti coloro che silenziosamente e con il sorriso tra le labbra alleviano la loro sofferenza.

Michele La Pusata




Osservare

Anni fa è nata una bella amicizia con un pittore di alto livello che frequentava spesso il mio convento. Il giorno in cui gli ho con dato di provare una “santa invidia” per chi sapeva usare il pennello, mi ha risposto semplicemente: «Ma tutti possono dipingere: basta imparare, e le tecniche si acquisiscono».

Ed io: «Non so tenere in mano la matita, figuriamoci il pennello!». «Se vuoi, io posso darti delle lezioni». Ho accettato la sfida. L’incontro con questo pittore è stato per me un dono di Dio: non solo mi ha insegnato a disegnare e a dipingere, ma la sua è stata anche una lezione di vita.

Lui mi ripeteva spesso: «Osserva molto, immagazzina più immagini che puoi nella tua mente, perché questo poi ti consentirà di esprimerti». L’osservazione mi ha aiutato anche nelle relazioni umane, nel mio ministero sacerdotale, nel quale non posso essere superficiale.

Se osservo gli oggetti, la natura, quando dipingo, non posso non essere attento al fratello che ho davanti quando mi apre il cuore.

Fra’ Giuseppe – Italia

Fonte: Il Vangelo del giorno, Aprile 2017, Città Nuova Editrice, pag. 151




Conducevo una vita borghese, da ministro burocrate ma poi . . .

Anch’io vissi sulla mia pelle tutta la problematica dei primi anni ’70: ricerca di identità, crisi di solitudine, disunità tra clero e vescovo, mal posta apertura al sociale, fino al punto da perdere di vista la mia scelta originaria: Dio. Conducevo una vita borghese, da ministro burocrate.

Mi dedicai a degli hobby che non avevano nulla a che spartire con i miei compiti di prete. Spesso trascorrevo qualche ora andando a caccia con degli amici; mi piaceva pure la pesca fino al punto da procurarmi una grossa imbarcazione da diporto, completa, s’intende, di reti e di ogni marchingegno da pescatore professionista. Ma soprattutto mi affascinava la radiofrequenza, tanto da potermi collegare con radioamatori non solo dell’Europa ma perfino di oltre-oceano.

Con una vita così, il mio rapporto con Dio si era di molto affievolito e l’attività pastorale languiva. Fu a questo punto che un sacerdote mi rivolse un invito inaspettato: “Perché non vieni con me domani sera a Roma ad un convegno di sacerdoti? Vedrai che non avrai a pentirtene”. Capirai, pensai tra me, trovarmi solo tra preti… deve essere una barba tale… no, non ne parliamo neppure. Quella notte non riuscii a chiudere occhio. Rividi tutta la mia vita passata e mi sentii un fallito, ma davanti al volto sereno di chi mi aveva invitato, decisi di partire.

Fu per me una folgorazione! 720 tra sacerdoti e religiosi (durante un incontro internazionale del Movimento dei Focolari) di tutte le nazionalità, congregazioni, razze, culture  in un clima di armonia e di sincera fraternità. Credetti di essere sbarcato su un altro pianeta. Si parlava della nuova spiritualità dell’Unità, dell’amore scambievole fino a dare la vita. Mi pareva un’utopia una vita così. Io mi conoscevo bene. Sarebbe venuto fuori qualcosa di buono da me?

Durante l’incontro però vedevo che si viveva nei miei confronti quello che si diceva: letto rifatto, servizio a tavola . . . sembrava che gli altri vivessero soltanto per servirmi. “Eh no, qui son tutti matti, pensai, sarà tutta una montatura!”. Man mano, però, incominciavo a sentirmi sciogliere dentro: come mai mi sentivo accettato per quello che ero?

Le parole: Dio al primo posto, perdere tutto, inabissarmi nel presente per amare il fratello, capovolsero la mia vita. Perdere tutto, lasciare tutto! Queste parole mi risuonavano potenti nell’anima; da dove cominciare? Rientrato in paese trovai la forza di sbarazzarmi del fucile, dell’imbarcazione con tutta l’attrezzatura; mi sembrò un po’ duro staccarmi dalla radio frequenza, ma vinsi anche questa, smantellai tutto e non se ne parlò più.

Chiesi al mio vescovo di lasciare la parrocchia e fui “promosso” da parroco a viceparroco in una parrocchia con un confratello che condivideva lo stesso ideale. Trascorsi appena due mesi, il mio vescovo mi fece la proposta di celebrare la messa nel carcere. Le gambe mi tremavano. Ho pensato a Gesù abbandonato, tagliato fuori da tutti…. L’amore verso ogni carcerato per me doveva essere una scelta rinnovata a Lui. Mi buttai e dissi di sì.

All’ora stabilita fece il suo ingresso nella disadorna cappella un gruppo di detenuti; mi scrutavano studiandomi, mentre accendevo le candele e preparavo le ampolline.
“Il Signore sia con voi… e con il tuo spirito” dovetti aggiungere da me . . . nessuno, infatti, conosceva la risposta. Ma l’esame più difficile fu il commento al Vangelo che parlava di Zaccheo.

Non riuscii a dire niente di quanto con cura mi ero appuntato ma sentii che potevo amare concretamente. Dicevo a ciascuno di loro: “Non mi interessa che cosa hai fatto o che cosa farai, voglio solo sapere se vuoi essere aiutato e se ti posso aiutare”. Così mi trovai a fare con gioia il fattorino per sbrigare una pratica di pensione, il detective per rintracciare una moglie che da sei anni non dava più notizie, l’intermediario per ottenere la disponibilità di bravi avvocati a difendere gratuitamente qualche detenuto in difficoltà economiche.

Fu così che la mia vita cambio!

Don Pietro




Quando l’arte diventa “sacramento di Dio”

Intervista allo scultore e teologo don Luigi Razzano

a cura di don Mimmo Iervolino

Luigi Razzano è uno scultore, poeta, pittore e sacerdote. Nasce a Caserta nel 1963. Il suo paese d’origine porta il nome di un grande monte italiano: Cervino, ma col monte ha in comune solo centodieci metri di altitudine sul livello del mare. Dopo il diploma artistico, nell’82 entra nella bottega del maestro A. Argenio, dal quale apprende e perfeziona la tecnica della scultura in marmo. Con lui collabora fino all’86. Dopo le strade si dividono. Luigi è attratto da una ricerca esistenziale che lo porta nel 1988, all’età di 25 anni, a lasciare l’attività artistica per il sacerdozio. Un cammino formativo che lo conduce all’ordinazione nel ’96. Il suo desiderio di conoscere e indagare il mistero di Dio lo porta nel 1999 a conseguire la Specializzazione e nel 2004 il Dottorato in Teologia Fondamentale, presso l’Università Lateranense di Roma, a pieni voti.
Seguono anni di insegnamento, prima come assistente di Cristologia e Trinitaria presso la Pontificia Facoltà di Teologia dell’Italia Meridionale, poi come docente di Teologia Estetica alla Scuola di Alta Specializzazione di Arte e Teologia, presso la PFTIM, e di Cristologia preso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Caserta. Un impegno quello della docenza che lo ha portato a coniugare la ricerca artistica con quella teologica ed estetica.
È stato inoltre Presidente della Commissione Arte sacra della Diocesi di Acerra (Na). Nel 2008 ha fondato il Centro Logos, per l’evangelizzazione della cultura attraverso l’arte. Nel 2012 lascia tutto e si trasferisce a Roma presso il Centro Aletti, dove comincia un’esperienza di comunione artistica con p. M.I. Rupnik. Dal 2014, insieme ad altri sacerdoti e religiose, vive a Santa Severa, presso Civitavecchia, dove l’ho raggiunto per questa intervista.

Chi viene prima l’artista o il sacerdote?

È un tutt’uno, non posso scindere l’uno dall’altro. Un tempo pensavo di dovermi dedicare radicalmente o all’uno o all’altra. Poi invece ho capito di essere chiamato e all’uno e all’altro: in altre parole, all’unità tra queste due vocazioni. Non so vivere il sacerdozio se non in chiave artistica. Ancora meno l’arte se non alla luce della dimensione sacerdotale. L’arte per me è una liturgia: un’offerta quotidiana della materia: che sia l’argilla o il mio cuore o ancora la libertà degli altri. È un altare sul quale donarsi Dio. In ogni caso un luogo dove sono sempre a contatto con una materia da offrire e ricevere.

La tua ricerca teologico-estetica non si è mai conclusa anche dopo il dottorato con Piero Coda?

Anzi, si è intensificata. Quando cominciai gli studi filosofici e teologici, presso la Facoltà Teologica di Napoli, non avrei mai immaginato di giungere al dottorato. Ho vissuto lo studio sempre come espressione della volontà di Dio. E in questa chiave senza accorgermi il Signore è andato fondando teologicamente la mia vocazione artistica. Il dottorato su Bulgakov mi ha dato modo di riconsiderare una delle categorie più in crisi della modernità: la bellezza. La sua rilettura in chiave sofianica (da sofia, sapienza) e trinitaria mi ha permesso di uscire da una visione essenzialmente classica e considerarla come avvento ed evento dinamico dello Spirito. La bellezza come l’amore accade nel dono di sé all’altro. Per dirla in termini teologici è una pericoresi che si rende visibile nella comunione. Vivere l’arte alla luce di questa esperienza di bellezza comunionale ha significato per me riscoprirla come luogo rivelativo di Dio e via di santità. Dio, per così dire, mi si è rivelato e mi si rivela da Artista.

Come sei arrivato a p. Rupnik del Centro Aletti?

Quando cominciai la tesi di dottorato, nel 2000, uno dei miei correlatori mi consigliò di incontrare p. T. Spidlik, un esperto del pensiero sofilogico e orientale in genere. Egli viveva allora presso il Centro Aletti. Ho un ricordo ancora molto vivo della sua cordiale accoglienza e del suo sorriso. In seguito, al termine della tesi gli chiesi una sua prefazione al mio libro: “L’estasi del Bello nella sofiologia di N.S. Bulgakov”, per i tipi di Città Nuova, ma non so come ma fu fatta da p. Rupnik, direttore del Centro Aletti. Da allora quelli con p. Rupnik sono diventati incontri sporadici ma progressivi.
Nonostante il dottorato e la docenza non ho mai tralasciato il lavoro pastorale che mi ha dato modo di interagire sempre con la gente e di conoscere da vicino la varie problematiche umane. Tutto ciò mi ha tenuto lontano dal mondo artistico per venti anni. Ma gradualmente cresceva in me un senso di responsabilità nei confronti dell’arte. Avvertivo come se un giorno avrei dovuto rispondere a Dio di questo talento. Finché nel 2008, manifestai il coraggio di riprendere l’arte. Avevo paura che fosse un ritorno al passato, ma dopo un lungo e approfondito discernimento, capii che ora l’arte mi veniva restituita centuplicata. D’accordo col mio vescovo, aprii in Diocesi, i Centro Logos, per chiunque avesse voluto avvicinarsi a Dio attraverso l’arte. Seguirono anni di attività evangelizzativa, estesa anche alla città di Acerra, dove risiedevo come vicario parrocchiale.
Nel 2010, un amico sacerdote mi informò della presenza di p. Rupnik nella sua Diocesi di Nola (Na), confinante con la mia. Mi recai subito da lui, per invitarlo al mio Centro Logos, che lui accettò dopo qualche tempo. Fu un’ora e mezza di colloquio, che mi fece maturare una ennesima svolta. Nel giro di poco lasciai di nuovo tutto e così, il dodici aprile del 2012, nel secondo anniversario della morte di p. Spidlik, mi trasferii al Centro Aletti.

Come concili questa01LuigiRazzano nuova vita artistica con l’Ideale dell’Unità che abbiamo condiviso per tanti anni?

Intanto mi hanno sempre sorpreso i tantissimi aspetti in comune tra l’Ideale dell’Unità di Chiara Lubich e lo specifico impegno teologico e spirituale del Centro Aletti. Ciò mi ha confermato ancora una volta come l’Unità fosse un vero segno dei tempi. E alla luce dell’insegnamento di papa Francesco direi che non è possibile pensare neppure la Chiesa in modo Occidentale o Orientale, occorre più che mai pensarla in modo cattolico, nel senso universale del termine. Ogni realtà non è solo un’are geografica o culturale, ma una prospettiva spirituale, teologica  ed ecclesiale che fa della Chiesa una convergenza dei popoli in Cristo.
Per tornare alla domanda, mi chiedevi come concilio l’arte e la spiritualità dell’Unità. Il mio non è
uno sforzo conciliativo, come fossero due realtà differenti, ma un’esperienza di unità che vivo già a livello interiore. Ed è questa unificazione spirituale che traduce in unità anche le relazioni interpersonali. È bello, per esempio, poter constatare quanto questa unità tra di noi artisti del Centro si renda palpabile nei cantieri musivi che facciamo nelle diverse parti del mondo. Ogni volta che lavoriamo per un mosaico in una chiesa si tocca con mano la dimensione corale dell’arte e della Chiesa. Ed è bello poter constatare sempre quanto questa unità tra di noi diventi visibile e percepibile dalle varie comunità parrocchiali che incontriamo.


Che posto ha Gesù Abbandonato nella tua esperienza artistica?

Direi che è la conditio sine qua non. Senza di lui il sacerdozio, l’arte e perfino l’unità rischiano di essere esperienze idilliache. Lui è la chiave, la colonna e il fondamento, per dirla con P. Florenskij, dell’arte.  È l’esperienza di deserto che precede la fase creativa di ogni opera, il passaggio del Mar Rosso che porta alla libertà della contemplazione di un’opera. Può sembrare un paradosso ma l’unità personale tra arte e sacerdozio e l’unità tra noi artisti del Centro passa necessariamente attraverso una solitudine, spesso spiritualmente provata, nella quale il Signore ti chiama a stringerla prima personalmente con lui. Nessuna spiritualità comunitaria può fare a meno di questa dimensione personale. Solo un artista che muore a se
stesso può manifestare Cristo attraverso le sue opere. Gesù non ci ha lasciato nessuna opera sua che non fosse una manifestazione della gloria del Padre. Tutto è stato in vista del Padre. Non capisco perciò una scelta artistica di un sacerdote che riduca l’arte ad un mezzo per rappresentare o esprimere se stesso. È un controsenso che sovverte la logica della glorificazione del sacerdozio di Gesù.  

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Seconda nascita

Ero ancora bambina quando dovetti prendermi cura dei miei genitori, entrambi malati, imparando a cucinare e ad accudire casa. Come se non bastasse, la mamma perse il lavoro: allora provai veramente la fame, giorni e giorni senza cibo o al massimo con pane bagnato.

Dopo quel periodo così duro, fui ospite di una casa famiglia. Un anno dopo la mamma si tolse la vita ed io, in seguito, venni adottata da una coppia, subendo però maltrattamenti. Disperata, mi rivolsi a Dio: «Se esisti, salvami!». Fui ascoltata: ebbi modo di ritornare dov’ero nata e riabbracciare mia sorella.

Poi una “seconda nascita” grazie a due coniugi alla cui vicinanza devo molto. La loro comunità cristiana è diventata la mia vera famiglia, sono maturata nella fede e ho realizzato un sogno: avere una casa mia ed essere indipendente.

Come lavoro assisto un’anziana. Oggi nell’abbandono di Cristo sulla croce avverto tutto l’amore di un Dio, e in quello che ho sofferto vado scoprendo un senso: come in un dipinto che il pittore completa a poco a poco.

L. – Italia

Fonte: Il Vangelo del giorno, Aprile 2017, Città Nuova Editrice, pag. 53




Dagli scritti di un malato terminale

Sono profondamente persuaso che il Signore ci ama sempre: quando ci consola e quando ci prova… per fare in breve tempo di ognuno di noi un suo capolavoro.

Con gli anni cadono anche tante cose inutili come foglie morte d’autunno. Dio ora si comunica diversamente, senza intermediari. Da alcuni anni sono iniziate le prove della salute.

Da poco se ne è presentata un’altra più seria per cui la medicina non ha tuttora scoperto il rimedio. Mi sembra che la mia vita stia per imboccare una strettoia, ma nello stesso tempo sento che Dio mi è più vicino e che i miei giorni sono nelle sue mani.

Filippo – Italia

Fonte: Il Vangelo del giorno, Aprile 2017, Città Nuova Editrice, pag. 36




Banco di prova

Gestisco un negozio di articoli da regalo in un quartiere popolare. Per me un cliente è più di un cliente: considero importante il rapporto da avere con lui, al di là del fatto che devo vendere.

A volte c’è chi viene semplicemente a con darmi i suoi problemi; io l’ascolto e, se posso, cerco di dire la mia. Tanto che, a questo proposito, papà mi prende in giro: «Invece che un negozio sembra un confessionale». Il fatto è che questo lavoro io lo vedo come il banco di prova del mio esser cristiana, del mio sforzo di vivere secondo la Parola di Dio».

Rachele – Italia

Fonte: Il Vangelo del giorno, Aprile 2017, Città Nuova Editrice, pag. 31




Anziana sulla breccia

Nel giorno del mio 82° compleanno mi sono iscritta a Filosofia. La sentivo come una occasione per testimoniare Cristo in mezzo ai giovani. All’inizio gli altri studenti erano un po’ meravigliati nel vedere una matricola della mia età, ma sono stati sempre molto gentili con me e hanno cominciato ad affezionarsi: ormai per loro ero una collega a cui potevano telefonare, chiedere consigli…

Un giorno ho chiesto ad alcune giovani colleghe: «Avete tutto, eppure mi sembrate tanto tristi. Come mai?». Il mio fare schietto e affettuoso ha suscitato le loro confidenze: non erano credenti e avvertivano un vuoto esistenziale. Da allora non le ho più mollate.

Una di loro mi ha scritto: «Da quando sei qui ci ha ridato la gioia di vivere». Le ho invitate a mangiare una pizza: «Ma come, aspettate che vi arrivi gioia da una vecchia? Se fossi più giovane, farei fuoco e fiamme, sarei a Montecitorio!».

I giovani sarebbero fatti per grandi cose. Ma hanno bisogno di qualcuno che proponga loro grandi ideali.

Meyra – Italia

Fonte: Il Vangelo del giorno, Marzo 2017, Città Nuova Editrice, pag. 107




Un tocco di divino

Ci ritroviamo mensilmente a casa di uno di noi per aiutarci a vivere secondo il Vangelo, scambiandoci anche esperienze. Oggi la Parola è sul perdono.

Già i primi interventi rivelano la difficoltà a mettere in pratica l’invito di Gesù; qualcuno rivela, angosciato, il suo astio invincibile verso chi è stato causa di situazioni dolorose che si trascinano da anni. Mentre una cappa scende sul nostro gruppo, mio figlio Andrea, 6 anni, è intento ai suoi giochini in un angolo, apparentemente estraniato dai nostri discorsi.

Ad un tratto viene a dirmi in un orecchio: «Papà, vi devo dire una cosa importante». «Va’ a giocare, non vedi che siamo occupati?». Lui insiste tanto che mi vedo costretto ad accontentarlo: «Ascoltiamo Andrea: deve dirci una cosa importante».

Lui si piazza in mezzo a noi e dichiara: «Dovete volervi bene!». Poi, senza dire altro, va a giocare nella stanza accanto. Rimaniamo stupefatti, io per primo. E il clima della riunione non è più quello di prima. Come per un tocco di divino.

Celestino – Italia

Fonte: Il Vangelo del giorno, n.3 Marzo 2017, p.29 (Città Nuova Editrice)




Un ragazzo mi doveva picchiare . . .

Un giorno a scuola, un mio compagno è venuto a dirmi che un ragazzo mi doveva picchiare… Io sono rimasto un po’ stupito perché non sapevo il motivo di questa cosa. Ho cercato però di non pensarci.

Tornando a casa sul metro, mi sono accorto che quel ragazzo che mi voleva picchiare era seduto di fronte a me. Vedendomi si è avvicinato e mi ha dato uno schiaffo molto forte. Dentro di me sentivo rabbia, anche perché lui mi aveva picchiato senza alcun motivo. La tentazione di restituirgli lo schiaffo era fortissima. Intanto altri miei amici… ci si erano messi intorno e mi guardavano come per dire: “Dai! Fagli vedere che non hai paura di lui”.

E’ stato un momento molto critico, perché se non avessi reagito, i miei compagni mi avrebbero deriso e quel ragazzo ne avrebbe preso lo spunto per continuare a fare il prepotente. In quel momento però ho pensato che quella era la mia occasione per vivere fino in fondo la parola di vita, essendo sicuro che il perdono non equivale alla sottomissione. Così mentre tutti si aspettavano che io mi scagliassi su di lui, con calma mi sono seduto e nel mio cuore ho detto: “Ti perdono!”.

Per quel ragazzo è stata una doccia fredda perché anche lui s’aspettava una reazione violenta. Scendendo dalla metropolitana uno dei miei amici mi ha chiesto il perché di quel mio comportamento e così io ho potuto spiegargli della parola di vita sul perdonare. Il Vangelo – ho detto – è più forte ed efficace di qualsiasi schiaffo!

(Davide – italia)

Fonte: dal sito WORDTEENS Noi ragazzi e il Vangelo




Tutto può diventare occasione di “dono”

Sono un anziano religioso.

Da quando anni fa rimasi colpito da paralisi agli arti inferiori, devo combattere con la tentazione di sentirmi collocato su un “binario morto”. Ora che in tutto dipendo dagli altri, anche nelle cose più delicate, e il mondo, per me, è diventato una stanza in cui trascorro la mia giornata nella monotonia delle ore, ora che tante persone conosciute percorrono le strade del mondo senza che io abbia più da interferire o consigliare… devo ancor più a darmi alla fede per dare un senso alla mia vita e scoprirne il valore.

È vero che, data la mia condizione, non posso influire sugli avvenimenti vicini e lontani. Mi è data però la meravigliosa avventura di vivere. Tutto può diventare occasione di lode, di ringraziamento, di preghiera, di offerta.

Anche Gesù, sulla croce, non ha fatto più miracoli o annunciato il Regno, ma ha continuato ad amare, anzi ha manifestato l’amore più grande e più puro, dando la vita per noi. Stare fermo non è immobilismo. Con e per Gesù crocifisso e abbandonato, voglio essere “dono”.

P. Vittorio – Italia

Fonte: Il Vangelo del giorno, febbraio 2017 (Città Nuova) p. 75




Per amore della vita intendo questo

Da anni, Bruno e Mina aprono le porte della loro casa di Genova all’umanità variegata delle periferie umane di oggi: giovani disadattati, malati di mente, immigrati, gente in difficoltà. Una testimonianza di Vangelo vissuto nel silenzio e nella radicalità.

Dal libro “Senza diritto di cittadinanza” di Silvano Gianti (edizione Città Nuova)

“Oggi, suono anch’io al campanello del condominio, non c’è il cognome, ma solo i loro due nomi: Bruna e Mino. Sono entrambi in pensione, anche se hanno superato da poco i ses­santa. L’ascensore mi porta all’ultimo piano, dove una bella terrazza affaccia sulle colline genovesi. Sono vissuti lunga­mente a contatto con le periferie umane, accogliendo ragazzi e adulti in difficoltà.

Lo hanno sempre fatto in modo semplice, senza cerca­re troppe spiegazioni. Era il loro stile di vita. A interrogar­si ripetutamente, invece, è stato il figlio, che dopo anni di ripensamenti ha deciso di affidare le sue considerazioni a facebook, convinto che i suoi genitori lì non le avrebbero mai lette. E invece loro le hanno scoperte, per caso. E forse per la prima volta hanno sentito l’eco delle loro azioni e del­la loro generosità.

«Le sole persone da cui potrei accettare discorsi su fede e sacralità di ogni vita sono i miei genitori. Mia mamma e mio papà. Bruna e Mino. Loro, insomma. Mica per altro. Perché da loro non dovrei ascoltare nes­suna opinione: dovrei soltanto assaggiare vita. Lo hanno scel­to appena sposati, anzi prima. Avevano trovato la casetta dei loro sogni (per i padani sarà normale, ma in una città come Genova è pura fantasia), indipendente, con giardino, eppure in centro. Da principesse delle favole. Però Ercolano, il loro amico distrofico, non ci sarebbe potuto andare. Niente casa dei sogni, appartamento di 40 mq in affitto in un palazzone. Per amore della vita intendo questo.

Ho vissuto una vita intera circondato da affetti dolorosi, persone che passavano da casa nostra nel loro momento peg­giore, e ci stavano settimane, mesi, per condividere brandelli di vita, dolori, morti. Qualcuno per un figlio, qualcuno per un marito, qualcuno per se stesso. E con ognuno ho costruito relazioni, ho imparato il dolore, ho appreso la normalità della sofferenza, la possibilità della fiducia. Aurora, per dire, è stata con noi mesi, tra ospedale e casa. Lei e i suoi fratelli, i suoi genitori. Bastava stringersi, e condividere. La chemio. La pri­ma comunione fatta di fretta, perché ci teneva. E la settimana dopo sarebbe stato troppo tardi. Aveva nove anni. Per amore della vita intendo questo.

Non è questione di fare da lazzaretto. È questione di aprire la porta. Ho scoperto tardi, già grandicello, che tutto questo non era precisamente “normale”. Avevamo cambiato casa, questa era più grande, con il terrazzo. C’è spazio. Mio padre si è licenziato quando gli hanno chiesto di fare la cre­sta sui bilanci. Si è messo in proprio, un lavoro in cui poteva guadagnare milioni al mese, in nero, in assoluta sicurezza. E invece ha scelto di restare nella legalità a costo di non fare i regali di compleanno ai propri figli. Per amore della vita intendo questo.

Quando Pippo aveva bisogno di piastrine, nessuno di noi quattro in famiglia poteva donarle. Abbiamo chiamato a raccolta fidanzate, amici, compagni degli amici, scono­sciuti coinvolti pressoché per caso… Mobilitare per la vita è questo, mica manifestare davanti a una clinica. Per inciso, Pippo è morto comunque. Ma all’ospedale ricordano anco­ra la processione inaudita di gente sconclusionata venuta a donare piastrine, non l’avevano mai vista, c’erano avvocati e giovani punk con tanto di cresta, studentesse universitarie vestite a puntino e commercialisti tremolanti che se la face­vano sotto, ma alla fine si erano decisi. Per amore della vita intendo questo.

E Stefano? È stato con noi quattro anni. Chiaro che un adolescente antipatico e malato non lo vuole nessuno. Ep­pure. Questo mi è pesato, e manco poco. Alla fine, non ne potevo più, lo riconosco. Quando è andato via, è stato libera­torio, perché mica bisogna fingere che sia sempre tutto bello e facile e edificante. Non ne vado fiero, l’ho evitato per un pezzo. Prima di ogni coma (il ragazzo aveva un che di teatra­le) ha però sempre cercato i miei, anche dopo anni. E c’erano solo i miei con lui quando è morto. Nonostante i pesci in faccia, le batoste. Erano lì, a tenergli le mani. Per amore della vita intendo questo.

Perché? Se volessi chiederglielo, farebbero spallucce. Forse, se insistessi, ti racconterebbero che per loro il vangelo è una cosa che conta, e che hanno deciso di crederci. Ma non con la testa, o con il cuore. No, no: con il corpo, con la vita. Per questo sono gli unici da cui potrei accettare discorsi su fede e sacralità di ogni vita. E forse, diciamocelo, anche per­ché non ne hanno fatti. Anzi, semmai…».

L’autore:

Silvano Gianti è nato a Cuneo nel 1957. Da sempre attento a chi vive in situazioni di povertà e di disagio, ha vissuto in diverse città d’Italia. Abita attualmente a Genova, dove lavora per “Città fraterna”, una onlus che sostiene i disoccupati del capoluogo ligure. Ha pubblicato in passato sul «Sole 24 ore» online, dal 1978 scrive sul settimanale diocesano «La Guida» e collabora con la rivista «Città Nuova».




Ho conosciuto Marco . . .

Ho conosciuto Marco a una festa tra amici. Era seduto a un tavolo, con gli occhi fissi. All’inizio avevo pensato che avesse un po’ bevuto, ma un suo sorriso mi ha incoraggiata a conoscerlo meglio.

Mi sono accorta che tremava un po’ come se avesse di coltà di movimenti. Aveva anche qualche difficoltà nel comporre le parole. Prima di separarci ci siamo scambiati i numeri di cellulare e mentre andava via, notando sulla sua nuca segni evidenti di un intervento chirurgico, mi sono resa conto dello sforzo che gli aveva richiesto quella breve comunicazione e la mia stima per lui si è accresciuta.

Ci siamo rivisti. In breve, mi sono innamorata di lui. Le mie amiche dicevano che il mio non era amore ma compassione per uno che aveva i giorni contati, anche se l’asportazione del tumore aveva avuto successo.

La nostra storia si è fatta seria quando abbiamo deciso di sposarci. Due anni dopo, il male si è ripresentato, inesorabile. Marco mi ha dato un figlio che ci ha resi felici. È morto sereno.

C. L. – Italia

Fonte: Il Vangelo del giorno, Città Nuova, Febbraio 2017, p.68




Consolare

Mentre sono in attesa dell’imbarco sull’aereo, scambio qualche parola con un’anziana signora. Piange mentre mi racconta che va a trovare la figlia in un centro di riabilitazione in seguito a un grave ictus: «Si è spesa sempre per gli altri e ora, dopo la disgrazia, le è crollata pure quella fede che aveva così forte!…».

Le assicuro che avrò cura di pregare per la figlia. Quando è il momento di salutarci, lei mi abbraccia: «La ringrazio, mi sento consolata!». Mi avvio all’aereo con una forte sensazione di sacralità, grazie a quell’incontro.

M. T. – Italia

Fonte: Il Vangelo del giorno, Città Nuova, Febbraio 2017, p.62




L’infinito

In quanto astronomo, collaboro ad alcuni progetti della Nasa e dell’Agenzia spaziale europea (Esa) riguardanti la strumentazione: si tratta di progettare strumenti per studiare sorgenti di raggi X molto lontane, ai confini dell’universo osservabile.

Sempre ho provato un senso di vertigine, un’attrazione per ciò che è infinito, per me coincidente col bello. Sentirmi portato fuori dal mio io angusto è stato il motivo per cui mi sono innamorato dei luoghi deserti (gli osservatori, in genere, sono situati in cima a una montagna e possibilmente in posti dove non piove mai, come può essere un deserto), luoghi dove, trovandoti con poche persone attorno, sei essenzialmente solo con te stesso e puoi più facilmente approfondire il tuo rapporto con l’Assoluto, che per me credente significa con Dio.

Comunque, se dovessi scegliere tra vivere nel deserto o in mezzo alla gente, non avrei dubbi: sceglierei la seconda opzione. Infatti mi porta fuori di me molto più il rapporto con il prossimo che non l’intero universo.

Paolo – Italia

Fonte: Il Vangelo del giorno, Città Nuova, Febbraio 2017, p.13




Coinvolgimento

Lo avevo incontrato per caso. Da giorni non mangiava. Dopo il fallimento del suo matrimonio, aveva consumato tutti i soldi ed era entrato nel giro della droga. Lottando contro la tentazione di non lasciarmi coinvolgere da una vita così oscura, mi son messo nella disposizione di fare qualcosa per lui.

Seguendo i miei consigli, è tornato nella sua patria e ha cercato di ripartire da zero con una vita più ordinata. Un giorno mi telefona: «Mi hai insegnato ciò che vale nella vita: amare senza attendere nulla in cambio».

T. M. – Italia

Fonte: Il Vangelo del giorno, Città Nuova, Gennaio 2017, p.108




Concretezza evangelica: un sacerdote racconta

Una cosa in me è chiara: non mi sono fatto prete solo per risolvere semplicemente tutti i problemi economici e sociali dei poveri, ma per riconoscere Gesù sofferente in ogni persona che incontro lungo la giornata e vivere in modo tale che possa farsi strada lo Spirito del Risorto, capace di offrire luce e concretezza evangelica anche di fronte alle problematiche sociali e culturali.

È stato, infatti, l’amore a Gesù sfgurato dalla povertà e dal bisogno a darmi la forza di gettarmi a capofitto ad aiutare chiunque me lo chiedesse.

Con questo atteggiamento in cuore, sono diventato anche amico dei frequentatori di un bar nei pressi della parrocchia. In tanti momenti mi fermo a prendere con loro un caffè o mi presento con pacchi di viveri avuti in dono dalla Caritas o procuro qualche giornata lavorativa a chi ha maggiormente bisogno.

Alcuni di loro, appassionati di musica e dotati di “talento”, si sono offerti a collaborare per la festa patronale. Ne è nata una serata organizzata da loro, dalla gente del quartiere, in un clima di famiglia. I musicisti sono stati i veri protagonisti, tutti ne hanno approvate le qualità e loro si sono sentiti orgogliosi di poter servire il quartiere.

Non di rado il bene fatto viene ripagato con l’indifferenza e la povertà porta qualcuno a sfruttare la parrocchia, come è successo con un uomo caduto in chiesa che mi ha chiesto una forte somma quale risarcimento per un braccio rotto e, visto che l’assicurazione non voleva pagare, mi ha citato in tribunale.

Per tutta risposta io continuo a ospitarlo in parrocchia . . . Le persone della parrocchia hanno saputo di questa mia reazione ed hanno commentato: «Noi avremmo reagito in modo diverso, ma tu sei cristiano e questo ci piace». Penso che questa esperienza sul perdono valga più di molte prediche.

Gerardo Ippolito

Leggi l’esperienza completa sulla rivista Gen’s – 4/2016 pp.170-172




Le fragilità nella nostra famiglia

Da un po’ di tempo mio marito ed io ci prendiamo cura, quasi a tempo pieno, dei nostri due nipoti di 10 e 8 anni, che abitano al piano di sopra. Questo perché la mamma li ha lasciati al babbo, nostro figlio, per andare a stare da sola. “Troppa responsabilità” ha detto e la separazione è stata consensuale.

Già da qualche tempo avevo notato l’insofferenza di mia nuora per gli impegni che una famiglia richiede. Mio figlio ha vissuto mesi molto dolorosi nel sentirsi rifiutato e nel dover accudire ai figli ancora abbastanza piccoli. Noi gli siamo stati sempre vicino, abbiamo condiviso tutto.

Ogni volta per noi nonni era vivere nell’attimo presente e certe volte ci chiedevamo “Perché?”. La risposta ci è venuta meditando sugli scritti di Chiara Lubich, soprattutto quando parla del dolore ed elenca i volti di Gesù Abbandonato. Lì vi abbiamo riconosciuto l’”Assurdo”. Era Lui da amare!

Come fare però ad andare oltre quel dolore? La preghiera quotidiana, il cercare di vivere la Parola di Vita che ogni mese ci nutriva, sono state un aiuto essenziale per dire di sì e ricominciare sempre ad amare. Per me è stato fondamentale sostenere mia nuora, farla parlare e non giudicarla. In fondo era stata accolta come una figlia, poiché aveva rotto i rapporti con la sua famiglia d’origine. Mi sentivo di poter volerle bene!

Talvolta ho sentito un senso di fallimento: forse non era stata amata abbastanza, visto che tutto vince l’amore? L’idea di chiudere ogni rapporto con lei ci ha sfiorato più volte, ma è stato più forte il pensiero che Chiara ci aveva, negli anni, formato ad amare sempre.

Per il momento non c’è stato un miracolo nella mia nuora ma c’è stato in me.

Tutte le volte che viene a prendere i bambini l’accolgo con un sorriso, le chiedo se desidera un caffè e la saluto con affetto. Dentro di me sento che questo modo d’essere aiuta i bambini a sentirsi meno soli, ad essere abbastanza sereni.

Questa accoglienza, che anche mio figlio condivide, penso che permetterà loro di passare un’infanzia abbastanza gioiosa. Con loro spesso si gioca a nascondino, si dipinge, si fanno i compiti….

In fondo al cuore c’è sempre il desiderio che si ricomponga la famiglia. In caso avvenisse questo miracolo vorrei che mia nuora trovasse qui quel clima che le permettesse di fare la sua parte. So che è un pio desiderio, ma non voglio porre limiti al Gesù che è in lei.

G. e F.

                                                                                             




Mi sento libero e in pace

La Parola di Vita di novembre mi è stata di grande aiuto: «Tutto posso in colui che mi dà la forza» (Fil 4, 13).  Nel commento fra l’altro è scritto: «Tutto posso quando vivo in comunione d’amore con altri, perché allora Egli viene in mezzo a noi, come ha promesso (cf. Mt 18,20), e sono sostenuto dalla forza dell’unità».

Sono molto contento che posso far vita comune con don A., così ho un fratello con il quale posso condividere tutto.

Una mattina ho ricevuto una e-mail che mi ha causato un grande dolore. È stato importante avere una persona con la quale parlare. Insieme abbiamo visto come rispondere e poi è stato anche possibile incontrare questa persona per poter parlare direttamente.

Sento in me di aver superato un certo rancore, mi sento libero e in pace.

Don J.




Un vero Natale

Venerdì sera, antivigilia della Festa di Natale, mi telefona una donna dicendomi che non si trova nessun sacerdote per benedire la salma di una giovane, mamma di quattro figli, prima che fosse trasportata in Irlanda.

Penso subito che il mio posto deve essere proprio lì, col dolore di quei bambini e del marito!

Mi affido al Signore, so che io sono solo un suo strumento.

Al cimitero trovo i quattro figli, dagli 8 ai 16 anni in un gran pianto, circondati dai compagni di classe e tanti loro genitori.

La bara è aperta, la mamma è proprio bella. Secondo la loro tradizione i figli vi avevano deposto i loro doni. Il papà sovrasta tutti con la sua corporatura e cerca di non piangere.

Passo a salutarli ad uno ad uno, li chiamo per nome, poi piano piano invito tutti a stringersi in cerchio attorno alla mamma e racconto come mai sono presente io, assieme anche ad un fraticello (di lingua tedesca) che qualche giorno prima era stato chiamato per portarle Gesù Eucarestia.

Dico che non siamo lì solo per dare un saluto alla mamma, ma per incominciare un nuovo modo di rapportarci con lei. Ricordo loro le parole che Gesù ha detto agli apostoli quando ancora giovane conclude la sua vita: “Non sia turbato il vostro cuore… vado a preparavi un posto… voglio che siate anche voi dove sono io”.

Continuo a dire: “Se Gesù è con la mamma ed è anche con noi – come ora che ci amiamo a vicenda – allora noi siamo in comunione anche con la mamma”.

Intanto è sceso il silenzio, c’è una grande attenzione, nessuno più piange: ci diamo la mano fra di noi ed insieme preghiamo il Padre nostro.

Don PG