Il ponte tibetano

Foto di Maria Teneva su Unsplash
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Gettare il seme: non trattenerlo per sé, ma seminarlo con larghezza e fiducia. Di notte o di giorno: il regno cresce silenziosamente anche nel buio delle nostre notti (1).

Mi sento come se fossi su un ponte tibetano: due anni da quando sono arrivata al san Vitaliano, due anni alla pensione.

Guardo indietro o guardo avanti? Se guardo indietro vedo il percorso fatto fin qui: i primi passi incerti su un panorama tutto nuovo, contraddizioni e conferme, crisi e riprese.

Se guardo avanti intravedo un orizzonte di sollievo ed incertezza in cui il futuro tremola un po’ come l’aria nelle giornate torride dell’estate.

Il mio ponte oscilla sotto la spinta delle emozioni contrastanti, della tensione tra passato e futuro. Mi afferro alle corde del presente, di oggi, nuovo giorno che si affaccia dopo una notte quieta.

Chi mi tiene in equilibrio? Io ho paura dell’altezza ma il ponte è fatto di assi solide: passo dopo passo procedo tranquilla perché c’è una forte intesa con chi divide le ore di lavoro con me: è una sintonia di intenti, di modalità di reazione, un confronto costante che mi mette in discussione e mi fa crescere (ancora!).

Il mio cammino è fatto anche di momenti di sosta, per raccogliere le forze e ripartire, per ascoltare e condividere, è fatto di lacrime lasciate scorrere e dell’abbraccio di una OSS che mi sorprende come il sole che nonostante tutto sorge ancora.

Qualcosa in questi due anni è stato seminato, al termine del mio ponte, forse qualcuno raccoglierà.

Paola Garz

1 Letizia Magri e team Parola di Vita

 

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