Quando l’arte diventa “sacramento di Dio”

Intervista allo scultore e teologo don Luigi Razzano

a cura di don Mimmo Iervolino

Luigi Razzano è uno scultore, poeta, pittore e sacerdote. Nasce a Caserta nel 1963. Il suo paese d’origine porta il nome di un grande monte italiano: Cervino, ma col monte ha in comune solo centodieci metri di altitudine sul livello del mare. Dopo il diploma artistico, nell’82 entra nella bottega del maestro A. Argenio, dal quale apprende e perfeziona la tecnica della scultura in marmo. Con lui collabora fino all’86. Dopo le strade si dividono. Luigi è attratto da una ricerca esistenziale che lo porta nel 1988, all’età di 25 anni, a lasciare l’attività artistica per il sacerdozio. Un cammino formativo che lo conduce all’ordinazione nel ’96. Il suo desiderio di conoscere e indagare il mistero di Dio lo porta nel 1999 a conseguire la Specializzazione e nel 2004 il Dottorato in Teologia Fondamentale, presso l’Università Lateranense di Roma, a pieni voti.
Seguono anni di insegnamento, prima come assistente di Cristologia e Trinitaria presso la Pontificia Facoltà di Teologia dell’Italia Meridionale, poi come docente di Teologia Estetica alla Scuola di Alta Specializzazione di Arte e Teologia, presso la PFTIM, e di Cristologia preso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Caserta. Un impegno quello della docenza che lo ha portato a coniugare la ricerca artistica con quella teologica ed estetica.
È stato inoltre Presidente della Commissione Arte sacra della Diocesi di Acerra (Na). Nel 2008 ha fondato il Centro Logos, per l’evangelizzazione della cultura attraverso l’arte. Nel 2012 lascia tutto e si trasferisce a Roma presso il Centro Aletti, dove comincia un’esperienza di comunione artistica con p. M.I. Rupnik. Dal 2014, insieme ad altri sacerdoti e religiose, vive a Santa Severa, presso Civitavecchia, dove l’ho raggiunto per questa intervista.

Chi viene prima l’artista o il sacerdote?

È un tutt’uno, non posso scindere l’uno dall’altro. Un tempo pensavo di dovermi dedicare radicalmente o all’uno o all’altra. Poi invece ho capito di essere chiamato e all’uno e all’altro: in altre parole, all’unità tra queste due vocazioni. Non so vivere il sacerdozio se non in chiave artistica. Ancora meno l’arte se non alla luce della dimensione sacerdotale. L’arte per me è una liturgia: un’offerta quotidiana della materia: che sia l’argilla o il mio cuore o ancora la libertà degli altri. È un altare sul quale donarsi Dio. In ogni caso un luogo dove sono sempre a contatto con una materia da offrire e ricevere.

La tua ricerca teologico-estetica non si è mai conclusa anche dopo il dottorato con Piero Coda?

Anzi, si è intensificata. Quando cominciai gli studi filosofici e teologici, presso la Facoltà Teologica di Napoli, non avrei mai immaginato di giungere al dottorato. Ho vissuto lo studio sempre come espressione della volontà di Dio. E in questa chiave senza accorgermi il Signore è andato fondando teologicamente la mia vocazione artistica. Il dottorato su Bulgakov mi ha dato modo di riconsiderare una delle categorie più in crisi della modernità: la bellezza. La sua rilettura in chiave sofianica (da sofia, sapienza) e trinitaria mi ha permesso di uscire da una visione essenzialmente classica e considerarla come avvento ed evento dinamico dello Spirito. La bellezza come l’amore accade nel dono di sé all’altro. Per dirla in termini teologici è una pericoresi che si rende visibile nella comunione. Vivere l’arte alla luce di questa esperienza di bellezza comunionale ha significato per me riscoprirla come luogo rivelativo di Dio e via di santità. Dio, per così dire, mi si è rivelato e mi si rivela da Artista.

Come sei arrivato a p. Rupnik del Centro Aletti?

Quando cominciai la tesi di dottorato, nel 2000, uno dei miei correlatori mi consigliò di incontrare p. T. Spidlik, un esperto del pensiero sofilogico e orientale in genere. Egli viveva allora presso il Centro Aletti. Ho un ricordo ancora molto vivo della sua cordiale accoglienza e del suo sorriso. In seguito, al termine della tesi gli chiesi una sua prefazione al mio libro: “L’estasi del Bello nella sofiologia di N.S. Bulgakov”, per i tipi di Città Nuova, ma non so come ma fu fatta da p. Rupnik, direttore del Centro Aletti. Da allora quelli con p. Rupnik sono diventati incontri sporadici ma progressivi.
Nonostante il dottorato e la docenza non ho mai tralasciato il lavoro pastorale che mi ha dato modo di interagire sempre con la gente e di conoscere da vicino la varie problematiche umane. Tutto ciò mi ha tenuto lontano dal mondo artistico per venti anni. Ma gradualmente cresceva in me un senso di responsabilità nei confronti dell’arte. Avvertivo come se un giorno avrei dovuto rispondere a Dio di questo talento. Finché nel 2008, manifestai il coraggio di riprendere l’arte. Avevo paura che fosse un ritorno al passato, ma dopo un lungo e approfondito discernimento, capii che ora l’arte mi veniva restituita centuplicata. D’accordo col mio vescovo, aprii in Diocesi, i Centro Logos, per chiunque avesse voluto avvicinarsi a Dio attraverso l’arte. Seguirono anni di attività evangelizzativa, estesa anche alla città di Acerra, dove risiedevo come vicario parrocchiale.
Nel 2010, un amico sacerdote mi informò della presenza di p. Rupnik nella sua Diocesi di Nola (Na), confinante con la mia. Mi recai subito da lui, per invitarlo al mio Centro Logos, che lui accettò dopo qualche tempo. Fu un’ora e mezza di colloquio, che mi fece maturare una ennesima svolta. Nel giro di poco lasciai di nuovo tutto e così, il dodici aprile del 2012, nel secondo anniversario della morte di p. Spidlik, mi trasferii al Centro Aletti.

Come concili questa01LuigiRazzano nuova vita artistica con l’Ideale dell’Unità che abbiamo condiviso per tanti anni?

Intanto mi hanno sempre sorpreso i tantissimi aspetti in comune tra l’Ideale dell’Unità di Chiara Lubich e lo specifico impegno teologico e spirituale del Centro Aletti. Ciò mi ha confermato ancora una volta come l’Unità fosse un vero segno dei tempi. E alla luce dell’insegnamento di papa Francesco direi che non è possibile pensare neppure la Chiesa in modo Occidentale o Orientale, occorre più che mai pensarla in modo cattolico, nel senso universale del termine. Ogni realtà non è solo un’are geografica o culturale, ma una prospettiva spirituale, teologica  ed ecclesiale che fa della Chiesa una convergenza dei popoli in Cristo.
Per tornare alla domanda, mi chiedevi come concilio l’arte e la spiritualità dell’Unità. Il mio non è
uno sforzo conciliativo, come fossero due realtà differenti, ma un’esperienza di unità che vivo già a livello interiore. Ed è questa unificazione spirituale che traduce in unità anche le relazioni interpersonali. È bello, per esempio, poter constatare quanto questa unità tra di noi artisti del Centro si renda palpabile nei cantieri musivi che facciamo nelle diverse parti del mondo. Ogni volta che lavoriamo per un mosaico in una chiesa si tocca con mano la dimensione corale dell’arte e della Chiesa. Ed è bello poter constatare sempre quanto questa unità tra di noi diventi visibile e percepibile dalle varie comunità parrocchiali che incontriamo.


Che posto ha Gesù Abbandonato nella tua esperienza artistica?

Direi che è la conditio sine qua non. Senza di lui il sacerdozio, l’arte e perfino l’unità rischiano di essere esperienze idilliache. Lui è la chiave, la colonna e il fondamento, per dirla con P. Florenskij, dell’arte.  È l’esperienza di deserto che precede la fase creativa di ogni opera, il passaggio del Mar Rosso che porta alla libertà della contemplazione di un’opera. Può sembrare un paradosso ma l’unità personale tra arte e sacerdozio e l’unità tra noi artisti del Centro passa necessariamente attraverso una solitudine, spesso spiritualmente provata, nella quale il Signore ti chiama a stringerla prima personalmente con lui. Nessuna spiritualità comunitaria può fare a meno di questa dimensione personale. Solo un artista che muore a se
stesso può manifestare Cristo attraverso le sue opere. Gesù non ci ha lasciato nessuna opera sua che non fosse una manifestazione della gloria del Padre. Tutto è stato in vista del Padre. Non capisco perciò una scelta artistica di un sacerdote che riduca l’arte ad un mezzo per rappresentare o esprimere se stesso. È un controsenso che sovverte la logica della glorificazione del sacerdozio di Gesù.  

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